Il latte è una cosa bella

Dopo anni senza tv, ammetto di sentirmi come un ex fumatore che ha ritrovato il gusto di respirare a pieni polmoni; l’olfatto, senza il catrame del tabacco lavorato, riesce finalmente a percepire quegli odori e profumi ormai dimenticati; il cervello, ormai libero da lobotomie mediatiche, ti offre il privilegio di guardare il mondo da un angolo diverso; un effetto simile alla pillola di Matrix. Ma proprio come Matrix, non è tutto rose e fiori, e soprattutto, bisogna ricordare che se esiste un prescelto, non sono certamente io.

Nonostante il lavoro di disintossicazione, come accade ai non fumatori, arriva ogni tanto una nuvola di fumo puzzolente e fastidiosa che non dipende dalla propria volontà, ma piuttosto dalla strafottenza di chi ti sta vicino: così succede con la televisione, che prima o poi ti ritrovi da qualche parte, accesa, a vomitare schifezze di ogni tipo.

E la cosa triste è che ti rapisce: ora che, almeno per me, è diventata una cosa estranea, succede che ne sono attratto, incuriosito, e non riesco a staccare lo sguardo, specie quando vedo cose incredibilmente stupide: il suo immenso potere mostra i muscoli.

Succedeva spesso quando, per lavoro, ero vicino Torino, ospite fisso da mesi in un albergo poco distante dal mio ufficio; al mattino, durante la colazione, ero mio malgrado rapito dal 42 pollici appeso alla parete della sala ristorante. Mi ponevo, ogni volta, le domande più insolite: ad esempio, perchè nelle pubblicità i bambini dicono sempre cazzate? Ma soprattutto, perchè li rappresentano usando quei toni per sembrare più deficienti? Chissà, forse qualche genio della comunicazione vuole far scattare uno strano meccanismo negli spettatori che spinge a fare paragoni, e ogni genitore si sente sollevato perchè pensa “mio figlio non parla come sto rincoglionito”, o “mia figlia se parlasse come questa la pigliano pe’ na cretina”.

Poi, al di là della forma, c’è la sostanza: Media Friends, ad esempio, la fondazione Mediaset (che come tutte le fondazioni, aiuta a sgravare un pò di pressione fiscale, ma ben venga se serve anche ad aiutare le azioni concrete) diffonde messaggi di amore, sani principi e iniziative che possono soltanto essere lodate. Peccato che al governo c’erano proprio i suoi vertici. Parte uno spot dove si vedono diversi cuochi; tra questi alcuni affetti dalla sindrome di Down; è un invito ad assumere le persone colpite da questa sindrome. Peccato che gli oneri fiscali sono tutti a carico di chi si propone per queste sane iniziative. Allora, si può pensare che non è giusto discriminare queste persone creando leggi ad hoc (la peggior discriminazione consiste nel creare un diverso a tutti i costi), ma se purtroppo sono già discriminati perchè Down (con tanto di spot), ci vuole per forza la contro-discriminazione. Allora fai due conti… il governo capeggiato dal proprietario della fondazione non ha fatto nulla su questo tema, ma ora c’è un altro governo, e questo governo, che già è brutto e cattivo di suo, diventa ancora più brutto e cattivo se facciamo notare che non fa nulla per le persone affette dalla sindrome di Down.

Ma se faccio ‘ste pensate, specie ad alta voce, vengo accusato di complottismo, e allora la pianto subito, anche perchè la politica, tutta, vedo che oggi è supportata da due sole categorie: i fanatici e quelli che hanno qualche accordo che tutela i cazzi propri.

Torniamo piuttosto alle pubblicità: Findus, che propone i suoi hamburger di pesce, conclude lo spot con la frase “il sapore della vita”, e mi ricorda la pesca a strascico che ha deturpato i mari e sterminato intere specie marine. Poi qualcuno dirà “non sono loro, sono gli altri”; per “ripulirsi la faccia” basta rivolgersi ai fornitori e dare la colpa a loro. E se proprio non è colpa loro, allora è colpa dei fornitori dei fornitori: ne rimarrà solo uno, quello che paga per tutti, e alla fine ci va di mezzo qualche pesce piccolo, appunto, per restare in tema.

Ed ecco che poi cambia reclame, e arriva l’ennesima bambina rincoglionita che ti recita la “poesia” sulla fetta al latte, perchè “il latte è una cosa bella”, e aggiunge “bianco come una stella”; non c’entra un cazzo ma per qualche strano motivo doveva uscire fuori una rima infantile senza senso, e per un altro inspiegabile motivo, la bambina deve mostrarsi ancora più stupida, per esigenze di copione. La mamma infine conclude con la frase “un gesto pieno di amore”, e penso agli allevamenti, dove i vitellini vengono strappati dalle madri per essere massacrati ancora lattanti, altrimenti le vacche perdono il latte; questo in autentici lager dove gli animali sono trasformati in oggetti per fare soldi, e niente di più, dimenticando qualsiasi etica, sensibilità o pietà umana per le torture e i maltrattamenti finalizzati al solo lucro di pochi.

E ammetto anche la mia ipocrisia, perchè dovrei essere vegano per parlare in questo modo, ma non lo sono ancora.

Poi arriva il reggiseno che aumenta la seduzione, mostrato con tutto l’erotismo del caso da una modella a dir poco perfetta (specie nel trucco), ben lontana dal mondo reale, e infine arriva il momento del profumo maschile, con un attore palestrato che, mentre attraversa un corridoio, incrocia un gruppo di bellissime modelle seminude in atteggiamenti poco equivocabili che lasciano presagire un’orgia imminente. Anche l’intimità e la sessualità sono uscite da tempo dalla sfera assolutamente personale, e sono diventate “standard”; devi uniformare pure la sessualità, e qualcuno deciderà cosa deve eccitarti e cosa deve piacerti, altrimenti sei “out”: mancava solo la pubblicità col pompino, e invece arrivano le pubblicità dei reality show seguite dalle fiction sorrisi e gioia nel mondo di plastica, giusto per concludere in bellezza. Mentre finisco la mia colazione, inizia finalmente il programma che segue gli spot pubblicitari: parte la sigla di Mattino Cinque, con un servizio morboso su una donna assassinata che si scopre aveva almeno cinque amanti. Scoop. E’ ancora più sensazionale la foto che la ritrae in sottofondo, senza trucco e in uno dei momenti più personali; senza alcun rispetto per quella donna che ormai non c’è più. Con quella foto veramente brutta, si voleva portare il pubblico a chiedersi “come faceva quella lì ad avere cinque amanti?”. Eppure, stando alla tv, sembra proprio che dai tabulati del suo cellulare emergono parecchie chiamate verso quei numeri (se analizzassero i tabulati del mio cellulare aziendale rischio di passare per un maniaco bisex, per tutte le telefonate di lavoro che faccio e ricevo, ma siccome -per fortuna- non sono ancora morto, non frega nulla a nessuno). Quindi una teoria senza riscontro, ma per dare spessore a quella interessantissima pista, c’è un’intervista al suo medico, arrabbiato perchè hanno trasformato, senza alcun motivo, una vittima assassinata in una zoccola che meritava quella fine; ovviamente il medico è stato immediatamente censurato. Ma poco importa: ecco che arriva lo spazio per “l’informazione”. Evviva: la telefonata del direttore Maurizio Belpietro che chiama Storace perchè accusato di villipendio al capo dello Stato; dedica una ventina di minuti buona a questo nuovo “scoop”, mentre l’Italia affonda giorno dopo giorno per la crisi. A quel punto ho finito la colazione e sono uscito senza vedere il seguito: peccato, ma rischiavo di fare tardi al lavoro. E a proposito di crisi, l’hotel di cui ero ospite fisso, ha chiuso i battenti per fallimento pochi giorni dopo, inguaiando un bel pò di dipendenti.

Tanti anni fa, quando la tv meritava di esistere, c’era un presentatore, un gran signore che ricorderanno anche i più giovani: Corrado; in un’intervista, una volta disse: “quando vado in tv devo essere professionale, per questo indosso sempre giacca e cravatta: entro nelle case di tanti italiani, e proprio come si farebbe nella casa di chi ti offre ospitalità, devo essere educato, devo essere gentile, e devo essere elegante”. Corrado è morto, e con lui è morta anche la Televisione di altri tempi; persone come lui erano ben accette nelle case di tutti, mentre oggi ti chiedi come ha fatto la tv a precipitare in questo modo, da dove è uscita ‘sta gentaglia, ma soprattutto, chi diavolo ha aperto la porta?

Ognuno decide per sè; nel mio piccolo, li ho sbattuti fuori a calci, e non ne rimpiango neanche uno, ma tornando alla metafora dell’ex fumatore, giuro che respiro a pieni polmoni.

E così saluto e ringrazio, per l’ultima volta, i dipendenti dell’hotel nel loro ultimo giorno di lavoro, che tra l’altro coincideva con il mio rientro a casa per il week end; nonostante io fossi il cliente, ed egoisticamente la cosa non mi riguardava, ero dispiaciuto quanto loro; ho apprezzato la professionalità, fino all’ultimo, che copriva le emozioni, e dal mio canto avevo simulato un educato distacco, per evitare di girare ulteriormente il coltello in quella piaga.

La tv nel frattempo proponeva un interessantissimo servizio, con tanto di scritte in sovrimpressione, sull’omicidio di Sarah Scazzi: una storia che dovrebbe essere dimenticata da tempo per il suo squallore e soprattutto per lo sciacallaggio mediatico, ma che invece, a quanto pare, ancora riesce a scuotere gli indici di ascolto. Ma c’è lo scoop: in esclusiva, per la prima volta in assoluto, i filmini privati della famiglia: ci voleva proprio, la mancanza di rispetto finale verso quel dolore.

Purtroppo va avanti così: il latte è una cosa bella “come una stella”, anche se il vitellino è stato strappato alla mamma ancora lattante e poi macellato senza pietà in nome del business. Tutto questo, per un “gesto di amore” da una madre verso la propria figlia. Un gesto di amore dal valore di un euro, più o meno, IVA inclusa.

 

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L’ottavo nano e la vera storia di Biancaneve

L’innocenza dei bambini è sacrosanta; questa banale affermazione spiega il motivo per cui le favole hanno sempre subìto una drastica censura per impedire il turbamento di innocenti creature che, prematuramente, potrebbero scoprire troppo presto che è meglio essere disillusi. La storia di Biancaneve che conosciamo, ha sicuramente qualche accorgimento in tal senso, ma questo tipo di analisi la lasciamo ad altri, per ora.

Piuttosto, c’è una trasposizione di questa fiaba, che trova un facile riscontro nel contesto attuale, e si scoprirà che Biancaneve, da protagonista, diventa solo una comparsa.

OttoNani

I sette nani in realtà non erano proprio nani, il vero nano era soltanto uno, e non era tra i sette; si è scelto di raccontare de “i sette nani” per omologare l’altezza degli altri; politically correct, per capirci, o semplicemente per affermare che “sono una squadra”, ignorando le peculiarità del singolo e abbassando i livelli degli altri in relazione al più scadente, piuttosto che innalzare i livelli dei mediocri rispetto al più scaltro.

Tra l’altro, come accennato prima, i nani non erano sette: c’era l’ottavo, che a dire il vero ha combinato più casini degli altri sette messi insieme. Ma non ne parlano, perchè quelle cazzate che ha combinato sono sicuramente diseducative.

  • Brontolo stava sempre incazzato, ma in realtá la sua incazzatura era dovuta al fatto che intorno a sè vedeva un branco di incapaci e nessuno gli dava ascolto; magari sbagliava, ma non aveva la possibilità di dimostrare le sue ragioni, o i suoi torti.
  • Cucciolo era un bambinone, rincoglionito dalla tv, lobotomizzato dai media, era l’unico in tutta Italia che aveva veramente creduto alla storia di Ruby nipote di Mubarack, e secondo lui, il bunga-bunga è una danza tribale.
  • Dotto aveva la capacità di trasformare anche la più insulsa banalità in un acuto brainstorming. Gesticolava di continuo fissando il soffitto mentre enunciava i suoi teoremi, quasi sempre astratti, insensati e inconcludenti. Aveva anche la notevole dote di raccontare balle colossali; in quei casi le sessioni di brainstorming diventavano, a detta degli altri, “brainstronzing”
  • Eolo invece soffriva di aerofagia. Ma spesso ciò era estremamente utile, perchè nelle sessioni di “brainstorming” iniziate da Dotto, era l’unico modo per far uscire tutti dalla stanza, e fermare gli sprechi di tempo.
  • Gongolo era il motivatore: sovente non capiva un cazzo, ma ripeteva sempre frasi sconnesse tipo “siamo una squadra”, “siamo invincibili”, ecc. Alla meglio, ogni volta riceveva in cambio una gratificazione salivare. Alla peggio, un calcio in culo.
  • Mammolo era il capo. Quello che doveva prendere le decisioni importanti, e puntualmente, in queste occasioni, si chiudeva nel bagno; dichiarava ogni volta di avere un problema di diarrea, e nessuno ha mai capito se ciò fosse vero o si trattasse di una scusa.
  • Pisolo era un parassita. Non faceva un cazzo tutto il giorno, se ne sbatteva di tutto e non gli interessava assolutamente nulla. Per questo, era considerato il più bravo di tutti.

…ma in realtà ne mancava uno: il più pericoloso di tutti, quello che nella favola non viene citato, quello che prendeva iniziative, quello che si vantava di comandare tutti ma in realtà si auto-proclamava per ciò che non era mai stato; quello che vendeva i risultati altrui e non aveva manco capito cosa aveva venduto. Quello in contrasto col mondo perchè ha sempre visto il mondo in contrasto con lui, quello che non ha mai capito la differenza che c’é tra le pillole di Matrix e le supposte di glicerina, quello che ancora oggi vive nel mondo parallelo, e rifiuta categoricamente l’idea di essere sotto l’effetto di una terribile quanto sconosciuta forma di auto-lobotomia.
L’ottavo nano, il più inutile.

Strònzolo.

E qui inizia la storia, ma non la raccontiamo tutta: ci hanno già pensato altri.

Iniziamo piuttosto da un momento preciso: la “squadra” doveva fronteggiare un problema; Biancaneve era stata avvelenata perchè la perfida strega le aveva fatto mangiare la famosa mela. Vediamo come sono andate le cose, quando gli otto nani hanno realizzato che c’era un problema da risolvere.

“E mò?”

Mammolo già si era chiuso nel cesso, Dotto aveva iniziato una disquisizione insensata sulla necessità di definire un processo per l’accoppiamento dei velociraptor estinti; l’unico che stava lì ad ascoltare era Pisolo, ma in realtà Dotto stava parlando da solo perchè Pisolo stava pensando ai cazzi suoi. Gongolo vedeva tutti gli altri preoccupati e cercava inutilmente di alzare il morale recitando, come un mantra, frasi tipo “possiamo farcela”, “siamo forti”, “siamo grandi” dopo aver visto il filmato su YouTube di Ennio Doris che incoraggia i promotori finanziari di Banca Mediolanum chiamandoli eroi, indossando il naso da clown e facendo pernacchie. E dopo quei tentativi, gli altri erano ancora più preoccupati, perchè oltre a capire come risolvere il problema, c’era da sorbirsi le stronzate di Gongolo. In realtà l’unico a non essere preoccupato era Brontolo, che era incazzato nero e bestemmiava blasfemìe degne della più terribile scomunica; Cucciolo invece stava davanti al pc: stava giocando con Powerpoint ed era arrivato all’ultimo livello, quello del mostro finale. In tutto quel casino, nonostante l’emergenza, erano tutti tranquilli: sapevano con assoluta certezza che, come un gong tibetano, la flatulenza di Eolo avrebbe finalmente decretato il momento in cui finisce il “trastullamento”, e si inizia a fare sul serio.

All’appello mancava Stronzolo. Era fuori a fissare l’infinito, anche se di fronte aveva solo  un’impalcatura pericolante (stavano installando un climatizzatore nella capanna del bosco,dal momento che era in offerta). Poi spalancò la porta ed entrò, raggiungendo gli altri. Li fissò con uno sguardo inflessibile rimarcato dagli occhi socchiusi che agli interlocutori trasmetteva l’idea di una sottile quanto acuta elucubrazione in corso. In realtà gli era entrato un moscerino nell’occhio (è sempre esistito uno strano legame tra i moscerini e gli stronzi); grido a tutti “luuk et mi, listen tu mi“; ci fu un silenzio intrrotto da Eolo, che sparò il botto con una rumorosa flatulenza. Nessuno capì chi dei due riuscì veramente a catturare l’attenzione di tutti, ma gli stakeholders affermano ancora oggi che il merito fu in realtá di Eolo. Comunque sia andata, il colpo di genio fece la sua prima apparizione; Stronzolo finalmente ebbe l’idea; decise di chiamare una società specializzata in tutto, quindi probabilmente in niente (teoria del tuttologo, o del medico generico). Dicevano di risolvere i problemi, ma proprio tutti i problemi del mondo, e Stronzolo, che non ha mai capito la differenza tra una televendita e una predica, aveva piena fiducia in quest’ultima, nonostante lo slogan che recitava: “high performance. Dribbled”, ma erano sempre in giacca e cravatta, e questo era molto importante. Gli altri non conoscevano le lingue straniere, ma Stronzolo si vantava di essere poliglotta (non avendo la conoscenza necessaria, gli altri lo assecondarono sulla fiducia, anche perchè la pigrizia prese il sopravvento sul nobile intento di sputtanarlo pubblicamente), così provò a spiegare quello slogan a tutti, senza capirne il significato. Alla fine capirono qualcosa tipo “the pen is on the table” e, come al solito, Stronzolo fu assecondato per pigrizia e per sfinimento degli altri che si erano stancati di discutere.

Capitava spesso che le competenze peculiari del singolo erano viste come le carte di una partita a poker: in momenti di difficoltà, specie quando nessuno sapeva come agire, il primo a farsi avanti diventava improvvisamente il tuttologo di riferimento, e gli altri, in parte disinteressati e in parte contenti per non aver ricevuto quella rogna, assecondavano il contaballe di turno sulla fiducia. Specialmente Dotto, che aveva costruito tutta la sua vita sulle balle.

E così, Stronzolo ilustrò la sua idea a tutti, fu avallata con vittoria schiacciante (tutti favorevoli, perchè non avevano capito un cazzo) e fu contattata la società “Apostrofure” per risolvere il problema. Ovviamente ai nani non era chiaro il problema, e non avevano la più pallida idea su una possibile soluzione; provarono a spiegare il tutto ai consulenti di Apostrofure e fecero un casino terribile. La societá non aveva capito il motivo per cui era stata coinvolta, così, per uscire dal tunnel, uno dei responsabili di quest’ultima propose: “vi sta bene se procediamo con un’analisi?”. Stronzolo rispose che la settimana prima aveva fatto un prelievo di sangue e avrebbe ricevuto le analisi per posta: Brontolo gli sputò in un occhio, Gongolo esclamò “evviva!” e tutti gli altri interpretarono quell’esclamazione come un assenso. Saltò fuori un accordo con compensi molto “profumati”, ma nonostante ciò, non era chiaro a nessuno cosa fare, così, i consulenti Apostrofure annotavano quello che facevano i nani, e siccome questi ultimi facevano solo casino, venivano fuori azioni assurde o fittizie, in carico ai singoli, che non avevano alcun senso, ma in compenso si creavano tonnellate di reports che nessuno leggeva. Tutto rigorosamente fatturato.

Le cose iniziavano a mettersi male, e l’atteggiamento dei nani era paragonabile a una partita a palla avvelenata: si accusarono tutti a vicenda, e siccome non si fidavano neanche delle loro stesse parole, cominciarono a scriversi le e-mail. La regola era semplice: l’ultimo a cui è indirizzato un giro di mail, è il colpevole. Così i nani ordinarono il BlackBerry, per rimbalzarsi le mail anche nei momenti piú insoliti: ma in tutto quel casino si era completamente perso di vista il problema, anzi, in fondo, di Biancaneve quasi non fregava più niente a nessuno. Perfino i consulenti di Apostrofure avevano dimenticato il suo nome, ma -per fare più figo- inventarono qualcosa in inglese, tipo “Biancawhite”. Ovviamente Stronzolo, che ha sempre avuto una particolare attitudine al copia/incolla delle terminologie anglòfone prive di senso, assecondò, e iniziò a nominarla con quella inutile trasposizione del suo nome, mentre si complimentava con coloro che avevano coniato quella stortura: “ottimo lavoro, guys!”. E Gongolo ricominciò con la storia della squadra: sottovoce ripeteva: “siamo forti, siamo una squadra… one nation one station!” e così via, mentre Brontolo era impegnato a dare craniate nel muro per la frustrazione. Cucciolo intanto aveva vinto la coppa del nonno per aver sconfitto il mostro di Powerpoint dalle sembianze di Steve Ballmer che balla il tip-tap mentre grida “developers”, e Dotto era intento a misurare il volume di carta igienica necessario a far otturare il wc: avrebbe rotto i coglioni a mezzo mondo su quella scoperta, ed era convinto che in quel modo sarebbe arrivato dritto al Nobel, magari passando proprio dai cessi.

Questa storia proseguì nei giorni successivi, ma un giorno, improvvisamente, arrivò Biancaneve a casa. Era messa male, ecchimosi su tutto il corpo, mezza anguria infilata nel culo, una gamba spezzata, un occhio cecato e un altro gonfio, due incisivi saltati, una tetta sgonfiata e un’altra gonfia il doppio. Insomma, aveva subito veramente di tutto e sembrava una baldracca appena uscita da un reality show trasmesso sulle reti pirata della Papuasia settentrionale.

I nani si fermarono tutti, come pietrificati, e subirono lo sguardo severo di Biancaneve, che, con l’occhio ancora buono, li fissò con uno sguardo truce: tutti rimasero in silenzio, impressionati e mortificati allo stesso tempo. L’unico che non si accorse di nulla era Mammolo: si era chiuso nel cesso e stava firmando un cospicuo assegno ad Apostrofure per la consulenza fornita, e in assenza della carta igienica si puliva con i reports che stava pagando con quell’assegno. Non si era reso conto della cosa, ma Stronzolo aveva detto più volte che “è stato fatto un ottimo lavoro”, e gli era bastato questo: dopotutto Stronzolo faceva tutto quello che lui non aveva alcuna voglia di fare, e per questo motivo lo teneva in grandissima considerazione: era pur sempre un aiuto prezioso.

Biancaneve rimase in silenzio per circa cinque minuti, fissando i nani senza abbassare lo sguardo. Poi finalmente aprì bocca e farfugliò (i denti ormai erano un dolce ricordo) poche parole, molto intense, profonde e significative che, nonostante il sangue sputacchiato rimasero ben impresse nella memoria degli otto nani.

“E MUORCH‘ E CHI V’E’ FTRAMUORCH !”

…Stronzolo interpretò quell’imprecazione sputacchiata come un cenno di ringraziamento, e per l’ennesima volta dimostrò di non capire un cazzo. Non era nuovo a queste situazioni grottesche, ma, come sua pessima abitudine, anzichè sfruttare un’occasione unica per evitare l’ennesima figura di merda, esclamò agli altri nani, gasato come non mai: “un altro obiettivo sfidante ci attende!”

Stavolta gli altri nani lo sfancularono con la rincorsa: perfino Gongolo, unito agli altri, esclamò “ora sì che siamo davvero una squadra! L’abbiamo mandato affanculo tutti insieme!”, e una volta tanto Brontolo non gli sputò nell’occhio, piuttosto lo abbracciò sorridendo: per la prima volta in assoluto, aveva smesso di stare incazzato.

Biancaneve se ne andò su un’ambulanza della Croce Rossa, pagata da Mammolo con i quattro spiccioli che gli rimanevano dopo aver saldato il conto con Apostrofure, poi trascorse un anno e mezzo tra ortopedia, maxillo facciale, chirurgia plastica, odontoiatria, e così via.

Tornò completamente rifatta: per restituirle una parvenza di femminilitá le misero tanto di quel silicone da poter incollare le finestre di un condominio, e grazie a quelle protesi si dedicò al sesso estremo: iniziò prima come pornostar, poi come escort di lusso, infine batteva sotto il lampione arrugginito al porto dei contrabbandieri. Aveva attaccato i metri usa e getta Ikea vicino al palo del lampione, e aveva segnato in rosso l’altezza di 1,70 metri: a chi le chiedeva il significato, lei rispondeva “non voglio vedere mai più un nano in vita mia”.

Un antico detto africano recita: “io sono quello che sono perchè voi siete quello che siete”.

C’è un significato meraviglioso dietro questa frase, ma nel caso di Stronzolo, e di tutti gli altri nani, la nobiltá di quel concetto, magicamente, sembrava in sintonia con il suono dello sciacquone che aveva tirato Mammolo. Era appena uscito dal cesso, ed era rimasto chiuso per ore, dopo aver visto la fattura con tanti zeri di Apostrofure: tra i servizi erogati c’era la reportistica consegnata a Stronzolo, che serviva a fargli capire cosa si è detto alle riunioni dove addirittura era presente.

Purtroppo questa storia non insegnò nulla a nessuno: Stronzolo aveva già in mente il prossimo “obiettivo sfidante”. E se non c’era, sapeva chi chiamare per inventarne uno.

Biancaneve, invece, era definitivamente trasformata da protagonista a comparsa, ormai aveva chiuso anche con quella vita, nonostante i metri usa e getta Ikea, aveva a che fare continuamente con i nani (erano i clienti più assidui, e non volevano saperne di lasciar perdere) così diventò una cozza che ammazzava il tempo postando i selfie su Badoo e Meetic. Il principe azzurro sul cavallo bianco l’aveva mandata a cagare, e alla fine si proponeva nella speranza di raccattare qualche anziano nobile decaduto, anche su un ciuccio scorticato, per giocarsi la carta dell’eredità.

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Pace interiore

Le grandi cittá sono strane… le persone hanno bisogno di identificarsi, perchè ciò che manca è proprio l’identitá. Ne creano una, collettiva, unica, e quella è la culla della moda, il conformismo, la tendenza; in pratica tre termini che piacciono, e sono usati da tutti, il cui significato è talmente ambiguo da non capirne piú il senso.

I pochi che hanno conservato una sorta di identitá sono relegati a definizioni impietose; l’affermazione “avere carattere” corrisponde nella maggior parte dei casi a un’ambiguitá, a una stranezza o, almeno, a un significato assolutamente confuso.

La tv ormai non è più una compagnia, ma un vero e proprio oracolo; non si limita a suggerire, ma con prepotenza impone cosa fare: gli effetti di circa quarant’anni di bombardamenti mediatici hanno raggiunto un risultato ormai consolidato, e le tecniche di persuasione sono state incredibilmente raffinate; addirittura nei servizi giornalistici non si bada più nemmeno ai condizionali messi al posto dei congiuntivi, e l’ignoranza, estesa anche fuori dai perimetri linguistici, è ormai fuori controllo. Omologazione, globalizzazione, uniformitá sono passati da disonore a vanto; perfino il senso estetico delle cose si adegua alle imposizioni di qualcuno o qualcosa. Il neologismo “standard” (che ormai tanto neologismo non è) detta perfino i canoni estetici cambiando connotati al ritmo del “tormentone dell’estate” e infine la ribellione degli anticonformisti è diventata più conformista dei conformisti stessi; standard, appunto… nonostante le tante vite brevi che eredita questa strana parola.

Chissá che fine ha fatto l’individualitá, in un contesto dove l’unione fa la forza, e per uscire dal limbo dei tanti “signor nessuno” si preferisce un gregge, convinti di riconoscersi in qualcosa che manco si riesce a comprendere. O si comprende, troppo tardi, che proprio nel gregge l’individuo si è perduto.

Perfino l’umorismo cambia faccia: fa ridere ciò che diventa comico,ma che di comico non ha nulla; la persuasione sistematica funziona: frasi, spesso stupide, ripetute a mò di citazione, ma in realtá prive di un senso compiuto, o estratti da qualche show pseudo-divertente spacciato per cabaret; la somministrazione mediatica prima o poi rende quelle citazioni parte integrante del linguaggio quotidiano. Ma questo lo dice chi vive di pane e psicologia, non certamente un idiota come me che fa riflessioni da bar in perle da bigiotteria di saggezza spicciola.

Eppure ricordo i tempi della mia giovinezza: mi ero avventurato nel fare il musicista, il dj, l’attore teatrale e manco ricordo gli altri “sfizi” che mi sono tolto, tutti durati il tempo necessario per accontentarmi, e per dire “è un’esperienza che ho vissuto”, da portare nei ricordi piacevoli, anche se ciascuno di questi ambiti, trascina con sè le vittime del più sfrenato fanatismo; espressione, secondo la mia modesta opinione, della mediocritá più estrema. Ma l’immagine che piú resta impressa è ambientata nelle discoteche dove ho lavorato come dj: sulla mia musica ballava, puntualmente, un tipo che sembrava appena uscito da un trattamento estetico durato chissá quante ore, con occhiali scuri sul viso abbronzato, anche se le luci basse interrotte continuamente dagli epilettici flash delle lampade stroboscopiche lasciavano ben poco al senso della vista. Ogni sera, sempre, c’era il “fighetto” o la “fighetta” che ballava ininterrottamente guardandosi allo specchio, e mimando mosse piú o meno sensuali scopiazzate dalla tv. Poteva anche crollare il mondo, ma l’ossessione data dall’immagine di sè superava qualsiasi altra prioritá; col senno di poi, mi chiedo oggi, dopo tanti anni, come si saranno trasformate in “scarponi” quelle “scarpe” (chirurgia estetica permettendo). Ogni sera c’era un soggetto diverso, e facevo le scommesse con me stesso quando, prima di iniziare la serata, “puntavo” sul “cavallo vincente” osservando le persone in fila per l’ingresso; a volte ci ho azzeccato, a volte no… ma la scena era sempre quella, nonostante il fatto che ero impegnato a “guidare” la serata dalla console: un “posto di comando” dal quale potevo osservare tutti, sfruttando una posizione privilegiata. Ci lavoravo nelle diacoteche, e mi divertivo facendo quel lavoro. Ma in realtá le ho sempre disprezzate con tutto me stesso, inorridito al solo pensiero di trascorrerci una serata da “cliente”.

E poi mi ritrovo con tanti anni trascorsi, con la testa più o meno al suo posto, un pò per scelta e un pò per forza; lavoro, ritmi frenetici dettati piú dal desiderio di apparire delle persone a caccia di ambizioni che dalle reali esigenze professionali, in un contesto dove il fittizio ha piú valore del reale, e dove ogni giorno si combatte una guerra spietata, cambiando nemico da un momento all’altro, per poi dimenticare perfino il fine ultimo della battaglia. Nella societá perversa dove vince il “lei non sa chi sono io” bisogna emergere, a tutti i costi, per poi scoprire che uno strano masochismo porta a desiderare ciò che renderá infelice il vincitore; come se non bastasse, l’argomento è tabù: guai a parlarne in giro… con la disoccupazione che c’è si rischia un linciaggio, o nella situazione migliore, qualcuno fará presente che comunque sono un fortunato, e sotto molti aspetti, è impossibile dargli torto.

A volte chiudo gli occhi e penso a Capo Nord, quando salii sulla moto, dimenticai ogni contatto col mondo quotidiano e feci quel viaggio in assoluta solitudine. Penso a Madeleine e Danee che mi ospitarono a casa pur essendo un perfetto sconosciuto, penso alla prima volta che vidi una renna in mezzo alla strada, in Finlandia: c’era una curiositá reciproca ed entrambi ci studiammo per diversi minuti, finchè ciascuno andò per la sua strada, penso al promontorio di Hoga Kusten a Lakselv, in Svezia, con quel tramonto mozzafiato sotto la pioggia, o quel nodo in gola dopo aver visto il primo panorama che apriva il sipario sul mare di Barents; penso all’oceano Artico, quando si mostrò a me per la prima volta dopo migliaia di chilometri: la strada alberata che percorrevo finiva su un bivio con l’oceano di fronte. Man mano che mi avvicinavo sparivano gli alberi e restava l’oceano, e quel sipario che si apriva lentamente per mostrare uno spettacolo unico rappresentava il meritato premio per aver attraversato l’Europa, in un silenzio assordante e una devastante discrezione; penso a Knivskjellodden che avevo raggiunto a piedi, mettendo la firma n.203 su quel diario sigillato in capo al mondo, tanto raccontato dalle leggende dei sognatori. Penso a quel terremoto di emozioni che rappresentava il più bel premio che potesse ricevere chi era alla ricerca di se stesso, ogni volta che varcavo un confine, e ogni volta che constatavo di essere troppo lontano per tornare indietro e troppo lontano per raggiungere il traguardo: ero semplicemente in balia del viaggio e in preda alla libertá; quella libertá in cui, grazie alla moto, decidevo io cosa fare e dove andare, senza regole, senza limiti… qualcosa che pochi riescono a capire, o immaginare. E infine l’isola di Mageroya in Norvegia, dove c’era quella piccola panchina rossa vicino al mare, che ha scolpito il “logotipo” indelebile di quella avventura nella mia mente. Penso a quella pace, e quella discreta maestositá della natura: tutto ciò che quel luogo chiedeva era spegnere il motore, scendere dalla moto e sedersi sulla esile panchina rossa, sgangherata e rovinata dalle temperature polari, poi star lì ore intere a pensare, non importava a cosa. Anzi, non importava più nulla: c’era la pace, un silenzio avvolgente che faceva più compagnia del rumore, il mare che dirigeva l’orchestra, e il vento che accarezzava i pensieri: per quanto la mia sintesi possa essere efficace o inefficace, è impossibile spiegare l’inspiegabile; so solo che la notte mi ricorda ancora oggi tutto questo, attraverso i sogni ricorrenti che la mia memoria propone, perchè non vuole dimenticare.

Era tutto lì, era quello che serviva per imparare una lezione preziosa: ero andato in capo al mondo per scoprire che la pace interiore ha bisogno di stare tranquilla, e non deve essere disturbata dalle “interferenze”. Avevo scoperto l’ovvio, ma proprio perchè ovvio, c’era bisogno di scoprirlo.

E ricordo chi, al mio rientro, mi etichettò come un folle, un incosciente e non ricordo che altro: quei giudizi superficiali, dettati dalla quotidianitá, suscitarono la mia più totale indifferenza; dopotutto non c’era cattiveria o invidia in quelle affermazioni, ma semplice ignoranza genuina e banale. La pace interiore a quel punto fu chiusa a chiave nello scrigno dei segreti, e non provai nemmeno a spiegare il significato di quelle esperienze; ormai sapevo dove trovarla e come trovarla: questo aveva ripagato tutti i miei intenti, e aveva dato il senso che cercavo in quella avventura. Ero comunque felice per i miei interlocutori perchè avevano raggiunto la pace interiore grazie a mezzi sicuramente più sbrigativi: è bastato un nuovissimo iPhone.

Quella pace durò fino al modello successivo.

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Progetto BYOAL 2.0 (Bring Your Own Ass-Licker)

“Come creare un perfetto leccaculo”. Istruzioni for dummies.

Scegliete con cura il vostro idiota. Sceglietelo bene, e seguite i consigli riportati di seguito: se avete qualche perplessitá in merito a questa scelta fondamentale, la breve guida che state leggendo può rivelarsi molto utile.

Prendetelo represso, magari con un matrimonio che equivale a un ergastolo, magari con una suocera che svolge egregiamente le mansioni di guardia carceraria, magari poco attraente per un’eventuale relazione extra coniugale, o talmente ripugnante da non avere manco una relazione (quelli sono i migliori). Su quest’ultimo punto, suggerisco di fare attenzione all’aspetto fisico: bisogna tenerlo lontano dalle distrazioni, e bisogna impedire a tutti i costi che possa in qualche modo inseguire istinti o desideri di accoppiamento. La scelta migliore corrisponde a un asessuato, ma qui, davvero, puntiamo sull’utopia.

Oppure, se proprio non si trova un “fuoriclasse” del genere, prendetene un altro, che ha confuso la gioia dei figli con la catena del cane, un letto caldo d’amore con il forno a microonde, i doveri familiari con i lavori forzati, o che ha dovuto accettare un bel paio di corna (e forse piú) pur di non sentirsi inferiore agli altri.

Prendetelo insicuro: quanto più è incapace, complessato, frustrato, meglio è; maggiore è la sua inutilitá, sociale, sentimentale, lavorativa, maggiore è la probabilitá che avete trovato il collaboratore perfetto. E lasciate perdere i titoli di studio, il curriculum, le esperienze: meno roba c’è, meglio è; chi ha faticato per ottenere qualcosa si aspetta un riscontro, o peggio, un “recupero” in funzione dei sacrifici che ha dovuto affrontare… e rischia di diventare un problema.

Comunque, se ne trovate uno che rientra in tutte queste casistiche… cazzo… presentatemi ‘sto fenomeno che voglio vedere come è fatto! (…la fortuna aiuta gli audaci… ma questo è davvero un caso da studio!)

Ora che l’avete identificato… Illudetelo in qualche modo: lasciategli credere che ha nelle sue mani un pezzo di potere o una qualche carica di responsabilitá. E se non esiste, inventatela: preferibilmente aggiungete la parola “capo” prima del titolo che avete pensato: il fascino del potere, anche se quest’ultimo è irrisorio, lo subiscono tutti, c’è poco da fare. Specie quelli che non conoscono il trucco.

Un altro punto fondamentale: coinvolgetelo in tutto ció che fate. Avrete due vantaggi: il primo consiste nel trasmettere un senso di partecipazione al malcapitato: vedrete che in poco tempo inizierá ad auto-esaltarsi con le ovvietá motivazionali tanto usate nelle grandi aziende, e proverá a convincere tutti sull’idea della “squadra vincente” con un tormentone asfissiante e ignorando le sfanculate che attirerá a sè come una calamita. Il secondo vantaggio consiste nel fatto che forse potrebbe anche imparare qualcosa, e sembrare (un pò) meno idiota agli occhi degli altri. E questo è un bene, perchè la vostra reputazione potrebbe risentire del fatto che avete incoraggiato un idiota; in questo modo l’idiota sembrerá un pò meno idiota, e voi perderete qualche punto in meno agli occhi degli altri.

Ancora: abusate dei neologismi, specie in lingua inglese. I tempi dell’avvocato Azzeccagarbugli che tentava di confondere Renzo Tramaglino sono finiti, il latino è una lingua morta, ed è stata sepolta dall’inglese. Basta un semplice slang anche poco ricercato per fare effetto. Vedrete che il vostro idiota, per emularvi, ripeterá come un pappagallo tutto ciò che dite, specialmente nei frequenti casi in cui non ha capito il significato. Inoltre penserá che certe cose le avete imparate ai corsi per manager (poco importa se non avete capito nemmeno cosa avete detto, e magari l’avete sentito in tv da Lele Mora); in previsione della sua futura o imminente ascesa, ripeterá qualunque stronzata che dite. Potete anche sfruttarlo come cavia per capire se effettivamente avete detto una stronzata o meno: se fosse cosí, lasciate a lui la brutta figura; in caso contrario, ricordatgli di fare tesoro dei vostri insgnamenti (e aumenterá anche la sua ammirazione nei vostri riguardi). Un efficacissimo copia/incolla, con una formidabile semplicitá: metodo “listen and repeat”, appunto, e vi troverete un automa a vostra immagine (…) e -speriamo di no- somiglianza. Se poi, l’inglese proprio non vi garba… ripiegate su qualche ovvietà di Fabio Volo. Funziona.

Ricordate inoltre che ogni riconoscimento che riceverá un idiota sará sicuramente più apprezzato rispetto al giusto tributo che merita chi sa fare bene il proprio mestiere… eppure non ci vuole molto a capire: un buono a nulla non si aspetta nulla; chi è bravo nel proprio mestiere sa che l’impegno di qualitá va premiato; o almeno, così dice il “manuale”. E qua arriva la sorpresa: cosa succede se l’idiota viene incentivato a discapito della persona in gamba?

La persona capace si incazzerá un poco… forse anche un pò di piú… ma in compenso avete guadagnato un leccaculo più fedele di un cane randagio salvato da morte certa, proprio perchè l’idiota non si aspetta una tale fiducia: avete “comprato” tutta la sua devozione a un prezzo stracciato. Molto meno di quanto avreste dovuto “spendere” per guadagnare la fiducia della persona in gamba, senza contare il fatto che avete stroncato sul nascere il potenziale rischio che la persona capace potrebbe emergere in qualche modo, o addirittura -se ambiziosa e astuta- potrebbe mettervi in cattiva luce… nei casi peggiori, perfino scavalcarvi… Se ció dovesse accadere, ahimè, avete fallito miseramente. E senza offesa, lasciatemi dire che forse siete stati più idioti dell’idiota… e non è impresa da poco, specie se lo avete scelto in base ai criteri suggeriti all’inizio.

 

E se l’idiota, col vostro aiuto, riuscisse a “scavalcare” gerarchicamente la persona capace, si ottiene il top: l’idiota si fará carico dei successi che ottiene la persona in gamba. En plein: l’idiota potrá anche vendersi in giro il fatto di essere diventato bravo, e nessuno potrá contestare la vostra scelta per aver messo quest’ultimo su un posto di comando, rilevante o meno che sia.

Una volta partita la “macchina” però dovete fare attenzione: è vero che ormai potete campare di rendita sul lavoro altrui; è altresí vero che il vostro idiota addomesticato ormai gestirá tutto al vostro posto, e soprattutto, è anche vero che non troverete più problemi, ma solo soluzioni, grazie all’inesauribile spirito di sacrificio che avete coltivato con meticolosa cura sul vostro invertebrato. Ma per quanto i germogli siano diventate radici, non dimenticate mai di innaffiare periodicamente il vostro vegetale: non dimenticate mai che l’idiota leccaculo fa comodo anche ai vostri avversari, e non è una vostra proprietá esclusiva. “Foraggiate” continuamente il vostro idiota e rendetelo dipendente dalla vostra persona, fatelo sentire sempre al primo posto, altrimenti qualcuno potrebbe soffiarvelo. Detta cosí potrebbe sembrare una stuazione al limite del ricatto… ma in realtá si tratta pur sempre di un investimento che si ripaga con la vostra quiete e la totale estraneitá da tutti gli oneri, senza però rinunciare agli onori.

Se siete riusciti in questa impresa, guardatevi allo specchio e fatevi i complimenti; avete regalato al mondo qualcosa di inutile, ma allo stesso tempo potrete affermare si aver migliorato il (vostro) mondo, e avete finalmente dato vita a una creatura mitologica: mezza leccaculo e mezza incapace; qualcosa che sicuramente è riuscita meglio di Frankenstein, anche se forse puzza di piú, anche se fa più schifo ed è piú viscida… ma siatene orgogliosi:

…è tutta opera vostra, ed è tutta farina del vostro sacchetto indifferenziato.

 

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Disadattàti 2.0

Tutto il giorno, l’occhio finisce sempre sullo stesso punto; un puntino piccolo piccolo, che dovrebbe essere luminoso e invece è spento; un puntino che ha la formidabile capacità di dirti se “sei nel mondo” o “sei fuori dal mondo”, quel piccolo, insignificante, insulso led di notifica sul cellulare.

Ed era spento.

“Devi fare qualcosa per illuminarlo”, suggeriva la classica vocina che sussurra all’orecchio; sul “cosa” invece è tutto da capire; se è spento vuol dire che nessuno ti cerca; se è spento vuol dire che sui social network sei circondato da “amici” (definizione informatica del termine) che hanno dimenticato la tua amicizia (definizione umana del termine), e se questo succede, se questo sta succedendo, è successo o succederà rappresenta un insuccesso tutto tuo; non hai fatto qualcosa di carino, non sei stato divertente, non sei stato spassoso, non sei stato interessante. Non sei stato.

“Allora cerca di non essere passivo”, suggeriva ancora la vocina; magari facciamo una ricerca in rete; cerco qualche cazzata per strappare un sorriso a qualcuno; e mentre cerco, mi scorrono davanti agli occhi le tante fotografie, di persone normali, o persone esibizioniste, o gli eterni “figli della notte” che a suon di happy hour sono sempre sorridenti con un bicchiere in mano… già, ci sono i riflettori, e come diceva il mitico personaggio di Buddy Kane, in “American Beauty”, “per avere successo è basilare proiettare un’immagine di successo”. Con tanti led lampeggianti sui cellulari, beeps e suonerie accavallate, che ci offrono quel meraviglioso parametro per valutare quanto siamo popolari. Come gli indici auditel.

Magari provi a contattare qualcuno; qualcuno che probabilmente non senti da un pò… ma avrà da fare; è impegnato per i fatti suoi: anch’io, tante volte, ero impegnato per i fatti miei, e non posso certo farne una colpa. Allora si può provare a inviare qualche messaggio; chissà; forse a qualcuno interessa sapere come sto, come me la passo, se ho qualche problema. E anche se lo avessi, non sarebbe bello esordire con la lista delle grane; meglio far finta di niente; del resto… raccontare i miei crucci a chi? Prima di capirli dovrebbero ascoltarli, e prima di ascoltarli, dovrebbero almeno essere interessati alla cosa. Meglio di no; sicuramente più conveniente fare il clown in pubblico, e poi saranno cazzi miei, quando sarò nel camerino da solo, senza dimenticare che quasi sicuramente racconterei la mia vita a chi non mi racconterebbe mai la sua, se non per qualche spiacevole episodio accaduto di recente.

Mi preoccupo, in fondo… ma non c’è nulla di cui preoccuparsi: c’è chi soffre perchè ha scritto una frase sul social network, e la persona verso la quale prova una “simpatia” non ha clickato sul pulsante “mi piace”. C’è chi si sfoga contro tutti per inveire, in realtà, contro una sola persona, ma siccome si tratta di una relazione clandestina, o da nascondere per paura dei giudizi altrui, quel nome non può essere rivelato. C’è chi invece si piange addosso perchè non trova l’anima gemella, e poi non ha manco capito quest’anima a chi deve somigliare. Oppure c’è chi se la passa bene; coppie “smielate” che si scambiano i messaggi romantici sulla rete; magari è l’unica occasione per mostrare un pizzico di considerazione, perchè quando si vedono manco si parlano. L’importante è proiettare un’immagine di successo, sempre, e ad ogni costo.

E alla fine vorresti gridare, per farti sentire; fai un’irruzione tra i led e hai la presunzione di sovrapporre la tua voce alle melodie piezoelettriche delle suonerie; finalmente entri in Matrix, senza prendere pillole rosse o blu, ma solo passando tra centinaia di led dai mille colori, e non ci capisci un cazzo, perchè realizzi che non sei Neo, nè Morpheus, nè Trinity. Sei un povero idiota che si dimena tra citazioni e personaggi dei film: la verità è che non riesci a comprendere, in fondo, quale modello sta imitando tutta quella gente lì fuori, con tutti quei led. O lì dentro, tra mille, colorate, stelle lampeggianti che provocano crisi epilettiche a ritmi psichedelici.

E allora si entra di nuovo, o si esce; magari speri di trovare chi parla la tua stessa lingua, ma c’è il nulla. Qualcuno si nasconde terrorizzato in un appartamento con le luci spente; qualcun altro si mimetizza tra gli altri, per non farsi scoprire; qualcuno è talmente trascurato e malandato da sembrare un barbone. E ti senti superiore; questi sono i disadattàti 2.0, ma tu non ne fai parte. Sei convinto di non farne parte, perchè pensi di non essere rovinato fino a questo punto.

E poi ti rendi conto che anche loro stanno pensando la stessa cosa di te.

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(dal blog “La carne e i maccheroni”, Ottobre 2011)

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La piuma

Esistono giochi divertenti che molti non conoscono. Talmente divertenti da suscitare l’invidia di chi trascura le regole o ne ignora gli effetti, eppure sono giochi che esistono da sempre; l’unica differenza sta nei mezzi che ora grazie a Internet consentono di andare oltre, specialmente attraverso i Social Networks.

Il gioco consiste nell’esibirsi per valutare le reazioni altrui; le esibizioni poi, sono articolate secondo diversi schemi; l’approccio timido da un lato, attraverso una pseudo-simpatia poco credibile e molto mirata, nella quale, attraverso sottili allusioni, si cerca di colpire l’attenzione di una persona passando per molti (o tutti). Da un altro lato, invece, l’approccio esplicito, quello che, nell’assurdo meccanismo dell’auto-convinzione, trasforma un comune mortale in una sorta di vip della Domenica, con quattro click di mouse.

Nonostante i discutibili risultati, cerco sempre di mantenermi neutrale sulle differenze tra uomini e donne, ma stavolta no, stavolta l’ago della bilancia si sposta sul piatto delle femminucce; probabilmente perchè spesso, nei rapporti dal vivo la discrezione femminile compensa la sfacciataggine maschile, e in questo caso si ristabiliscono gli equilibri, ma la regola ovviamente non si applica a tutte.

L’importante è apparire.

La sfacciataggine è un dono; qualche illuso idiota crede ancora che si tratta di un difetto, e invece ai tempi d’oggi è un autentico regalo di madre Natura, specialmente se coltivato dall’educazione familiare. Lo ammetto senza problemi: purtroppo questo dono mi manca; i successi della mia vita li devo ad altro, i fallimenti a questo.

Ma l’importante è apparire, mostrarsi, integrarsi con un contesto dove la noia derivata dal benessere regna sovrana, e guai a stuzzicare i protagonisti di questo “gioco”; anche sotto le più atroci torture continuerebbero a sostenere che si tratta di uno scherzo innocente, appunto; un gioco che “se produce altri risultati ben venga”, così la casualità e l’intenzionalità vanno a farsi fottere tenendosi a braccetto. E qualcuno addirittura ci crede.

Ora l’aspetto più interessante: le protagoniste di questo gioco hanno un’età tutt’altro che tenera; sia ben chiaro, anche le ragazzine spesso si lasciano sedurre dal fascino della pseudo-celebrità a portata di mouse, ma le più accanite superano abbondantemente la soglia dei 35; basta una macchina fotografica digitale, o un cellulare di ultima generazione, ed ecco pronto il book. E che book: pose degne di dive hollywoodiane, spesso che lasciano poco spazio all’immaginazione, pubblicate di continuo sui social networks e commentate con parole sgrammaticate da maschi arrapati che per una mezz’oretta di “gloria fallica” (spesso simulata) hanno rinunciato senza scrupoli a ogni forma di dignità e orgoglio, nonostante il fatto che puntualmente oltre alle parole NON seguono fatti (almeno non attraverso questi mezzi); infatti il contenuto spesso contiene una proposta sessuale o la descrizione di uno scenario dove si mette in pratica qualche fantasia. E i pesci, anzi, i piranhas abboccano appena si getta l’amo, pronti a rispondere a raffica, senza badare alla banalità di ciò che scrivono: ci cascano subito, con reazioni impulsive tali da annebbiare la mente, dimenticando che qualsiasi iniziativa non porterà nessun risultato. Intanto, risultato o no, l’istinto sessuale spesso incontrollato fa iniziare la solita agguerrita contesa virtuale verso una donna residente in un server, e questa “caccia” seguita dalla raffica di consensi rappresenta il “feedback” che dimostra il funzionamento del gioco, quindi, si va avanti e si continua rincarando la dose: i contatti sul social network aumentano in modo esponenziale, e nonostante la tristezza del contesto, ci si diverte così.

Gli uomini sono, per definizione, bastardi, sporchi e cattivi: la realtà invece è che gli uomini sono fessi, e se non fosse per la loro stupidità questo gioco non avrebbe funzionato; spesso non riescono a resistere di fronte alle tentazioni, e finiscono con l’ubriacarsi di banalità per poi tornare sobri scoprendo l’etichetta di porci o smidollati.

“…poeta d’ombre e di botte, tra ubriachi mignotte e umanità in calore…” (Ululallaluna/Negrita)

Una volta, una donna mi disse “voi uomini sottovalutate il potere che ha un pelo di CIUCIA” (dove, per chi non lo sapesse, si intende per “CIUCIA” l’organo genitale femminile); la stessa donna sosteneva che “bisogna lasciarla annusare; guardare e non toccare”. Per evitare di iniziare una discussione sterile, alimentata da luoghi comuni e leggende metropolitane (nella quale l’unica priorità consisteva nel difendere le donne ad ogni costo, anche di fronte agli sbagli più palesi) ho evitato di rispondere, ma in realtà avrei dovuto controbattere ricordandole l’altrettanto potere sottovalutato che ha una piuma d’uccello.

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(dal blog “La carne e i maccheroni”, Agosto 2010)

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Il paradiso può attendere

Gaetano si trovava in un posto insolito, era dietro una fila interminabile di persone ma non sapeva cosa stava facendo, non riusciva a vedere dove questa massa iniziava nè dove terminava; non riusciva a capire cosa stava succedendo ma semplicemente sentiva centinaia, migliaia di voci tranquille, senza agitazione, che accompagnavano quella folla immensa disposta in modo ordinato. C’erano persone di tutte le età, di tutte le razze e di tutte le estrazioni: era rassicurato soltanto dalla presenza, al suo fianco, di un distinto signore sulla cinquantina che, silenzioso e tranquillo, attendeva il proprio turno con un’aria serena e paziente. Gaetano voleva chiedergli qualche informazione ma era troppo imbarazzato: “cosa gli chiedo? Posso mai domandargli dove siamo? Ci faccio la figura del rincretinito…”, così decise di rimanere in silenzio, ma l’uomo al suo fianco si girò un attimo verso di lui, abbozzò un mezzo sorriso e raddrizzò la testa.

Gaetano allora decise di prendere coraggio e domandò all’uomo “scusi, ci vuole molto?”, l’uomo rispose con un tono gentile a accondiscendente: “per cosa?” ma Gaetano, rassicurato dalla cortesia di quella persona ammise: “non lo so, vorrei capire che posto è questo, forse ho avuto un’amnesia”. L’uomo lo guardò un attimo e sorrise, “nessuna amnesia, stia tranquillo, neanche io lo sapevo. Piacere di conoscerla, sono Ciro Del Giudice”, “piacere mio, Gaetano Esposito. Allora, visto che non sono impazzito, mi potrebbe aiutare a capire dove siamo?”.

“Siamo morti, caro signore”. Gaetano ebbe un attimo di esitazione; “morto io? E come sono morto? Non ricordo nulla…” ma Ciro aggiunse “sa, me l’hanno spiegato poco fa; me l’ha detto quel signore lì” e indicò un uomo sulla quarantina con gli occhi a mandorla, che vedendosi indicato, ricambiò accennando un inchino e un sorriso girandosi verso i due, poi Ciro proseguì: “in pratica l’attimo in cui si muore viene in qualche modo cancellato dalla mente, viene annullato dai ricordi… ha mai parlato con una persona che ha subìto un incidente grave o è uscita dal coma? Tutti dicono che non ricordano nulla, ma si sono risvegliati in un posto che non conoscevano; ecco… è andata proprio così; non saprei dire cosa le è capitato, ma i fatti sono questi, e tutte le persone che sono qui in fila si trovano nella nostra situazione”. Gaetano osservò le file interminabili di persone; “ma ci sono anche bambini…”, Ciro aggiunse “beh, sì, succede anche questo… fa parte della vita… o meglio, della vita che fu” e abbozzò di nuovo un sorriso, ma stavolta un pò amaro.

“Quindi le hanno detto anche perchè siamo in fila?” chiese Gaetano, e Ciro rispose: “Sì, mi hanno spiegato qualcosa: in pratica ci stanno assegnando un alloggio”. Gaetano non capiva: “un alloggio? quindi siamo in carne ed ossa… se siamo spiriti a cosa servirebbe mai un alloggio?”, ma Ciro aggiunse “in teoria ha ragione, ma in pratica, anche le anime occupano uno spazio; forse uno spazio inteso diversamente da come lo immaginiamo, ma pur sempre uno spazio; in fondo a tutta la fila c’è una specie di giuria, purtroppo da qui non si vede, ma loro sanno di cosa abbiamo bisogno e come sistemarci al meglio”. “Una giuria?” chiese Gaetano, “non ci capisco più niente!”; “a dire il vero anch’io ho le idee un pò confuse, ma mi hanno detto che dopo ci sarà da star bene” aggiunse Ciro.

“Ma tutte le storie della fede, la religione?”, “Signor Gaetano,” -rispose Ciro- “quel signore che mi ha dato spiegazioni è un Buddista; loro credono nella reincarnazione, ed invece sono qui con noi; io ero cattolico… o almeno appartenevo a quella bandiera, e qui non si vede un’ombra di ciò che insegnava la dottrina cattolica… lo stesso vale per i testimoni di Geova, gli Evangelisti, gli atei, ecc.ecc.ecc. Ma in fondo, se ci pensiamo… la religione, la politica, le associazioni… non sono modi inventati dall’uomo per accaparrare quattrini o per plagiare le masse?”. Gaetano ebbe un attimo di esitazione, ma Ciro continuò “Qui non esistono i soldi, non esistono bisogni, non esistono vizi; se occorre qualcosa si chiede alla giuria, e loro provvedono a tutto; nessuno dovrà rubare, nessuno avrà bisogno di essere disonesto, nessuno potrà approfittare degli altri, e soprattutto, nessuno conta più di nessun altro; in pratica, ciò che conta non è quello che la giuria può dare, ma piuttosto, capire ciò di cui abbiamo veramente bisogno…no?”.

“e le persone che ho lasciato?”… “quelle?” rispose Ciro, “in questo momento probabilmente sono al nostro funerale, o magari al nostro trigesimo; il tempo passa, ma noi qui lo avvertiamo diversamente; non saprei dirle da quanto tempo sono in fila; forse giorni, forse anni, chi lo sa? E poi, quel dolore “interminabile” delle persone che abbiamo privato della nostra compagnia quanto potrà durare? Una settimana? Un mese? Un anno? Ma il tempo cura tutto; avrà perso anche lei delle persone care, ma poi, la rassegnazione e l’abitudine hanno fatto il resto, giusto? E poi, se sente la mancanza della sua famiglia o di qualche persona cara, stia tranquillo, prima o poi passeranno anche loro da queste parti, e mi hanno assicurato che la giuria farà in modo da mettervi in contatto…”

“Ma qui vedo persone di tutte le razze, eppure parlano tutte la mia lingua”. “Quale?” chiese Ciro. “Beh, sento parlare italiano…” rispose Gaetano. “Giusto”, rispose Ciro, “lei sente parlare italiano, ma in realtà, a parte me, ciascuno sta parlando la sua lingua, mentre noi ascoltiamo la lingua che conosciamo. Gliel’ho detto, qui non esistono differenze.”. Gaetano era incredulo e curioso allo stesso tempo; “mi scusi”, chiese a Ciro, “ma non ci sono differenze nemmeno per chi si è comportato bene e chi si è comportato male?”. “Bella domanda, l’avevo fatta anch’io a quel signore prima!” rispose Ciro, e poi continuò: “In effetti sì, ci sono tutti; la differenza sta nel fatto che chi si è comportato male, continuerà a stare qui pensando agli errori che ha fatto in Terra. Ad esempio, un ladro non dovrà più rubare perchè qui non è assolutamente necessario, visto che abbiamo tutto. Quando la mente non è impegnata dalle necessità, si riesce a capire i propri sbagli; il ladro capirà il male che ha fatto e la sofferenza che ha causato agli altri, ma lo capirà solo ora, che non avrà più bisogno di appropriarsi delle cose che non gli appartengono”; “potrebbe anche infischiarsene però!” aggiunse Gaetano, “certo” rispose Ciro, “ma non riuscirebbe a stare bene qui se la pensa così; la giuria lo lascerà riflettere; il ladro forse è un esempio banale, ma possiamo prendere ad esempio cose ben peggiori; anzi, le faccio un altro esempio, che forse sarà più chiaro”. “La ascolto” rispose Gaetano, “bene; immaginiamo che lei in vita abbia commesso un omicidio”; “non è proprio da me!” rispose pronto, “certo, ne sono sicuro, ma immaginiamo per un attimo che è andata così: lei ha ucciso una persona, e immagino che avrà avuto un motivo, per quanto deplorevole, che l’ha spinta a farlo”. Gaetano riflettè un attimo e rispose “beh, certo; se l’avessi fatto, immagino di aver avuto un motivo, sempre che non sia impazzito all’improvviso”.

“Esatto”, rispose Ciro, “quindi, i motivi potrebbero essere molti: odio, invidia, soldi, ecc.ecc.”. “potrebbe darsi, certo”, “quindi”, aggiunse Ciro, “immaginiamo un mondo dove l’invidia non esiste, i soldi non servono e l’odio è un’utopia; non avrebbe alcun motivo per uccidere la sua vittima, chiunque sia”. “Immagino di no” rispose Gaetano, “quindi”, concluse Ciro, “oggi lei si troverebbe con un omicidio sulla coscienza, commesso per un motivo che qui non avrebbe valore, e si sentirebbe uno stupido per aver fatto una cosa del genere”. “Ho capito”, mormorò Gaetano, “adesso il concetto è più chiaro. Beh, sono stato fortunato ad incontrarla; almeno mi ha fatto capire un pò di cose… però… chi l’avrebbe mai detto…”. Rimase a riflettere per un attimo, e dopo un pò fece l’ultima domanda: “ma le hanno detto se c’è un modo per vedere ciò che succede sulla Terra?”; Ciro non rispose subito; “beh, in teoria sì: si parla del grande segnale che arriva all’improvviso; un suono fortissimo che indicherà il momento in cui potremo prendere contatto con ciò che abbiamo lasciato, ma non mi hanno detto altro; anzi, le dirò di più; avevo chiesto perfino se, una volta completata la fila, dobbiamo rimanere qui per sempre o solo per un certo periodo, ma anche stavolta non sapevano rispondermi; come vede, le ho dato un pò di risposte, ma molte spiegazioni mancano anche a me…”.

Proprio in quel momento, neanche a farlo apposta, un suono insopportabile cominciò a invadere quell’ambiente sterminato; Ciro gridò a Gaetano “forse è questo il segnale!”, Gaetano era confuso e disorientato, mentre tutta la gente si otturava le orecchie con le mani; il suono continuò per alcuni secondi fino a quando la luce scomparve all’improvviso, e non si vedeva più nulla.

Erano le sette del mattino di Mercoledì, la sveglia suonava sul comodino di Gaetano; doveva alzarsi per andare al lavoro e raggiungere l’ufficio postale dove da vent’anni prestava servizio in qualità di addetto allo sportello. “La fila” anche quella mattina era in attesa, e Gaetano nello svolgimento delle sue mansioni, si rese conto del “potere” che aveva nelle mani; non smise di pensare un attimo a quel sogno, e in quel contesto, come un “membro della giuria”, si sentiva un Dio tra le voci della gente che sbraitava: lui poteva gestire le persone che erano in attesa, lui “poteva” decidere se risolvere un problema ai clienti anzichè crearlo, al di là dell’etica e della professionalità; lui “poteva”, gli altri attendevano le sue “mosse”.

Ma la frenetica attività l’aveva distolto dai pensieri rivolti al sogno; come un automa registrava i bollettini di pagamento, incassava e preparava il resto, in modo diligente e coscienzioso, cercando di ridurre al minimo i tempi di attesa. Era così preso da non guardare neanche in faccia le persone che si presentavano all’altro lato; così all’improvviso si trovò per le mani un bollettino per il pagamento del telefono; distrattamente l’occhio si posò sull’intestatario del contratto e lesse “Ciro Del Giudice”.

Gaetano sollevò gli occhi per guardare la persona dietro al vetro antiproiettile, e vide proprio lui, Ciro del Giudice, lo stesso uomo che, nel sogno, gli aveva fornito tante spiegazioni; voleva parlargli, voleva capire cosa stava succedendo, ma in quel momento, di fronte, aveva a che fare con un perfetto sconosciuto. Ma i tempi di una transazione sono brevi, così decise di cogliere l’attimo: “non ci siamo già visti?” chiese, “no, forse mi confonde con qualcun altro!”; “scusi” rispose Gaetano, mentre gli stava per restituire la ricevuta dell’operazione conclusa.

Intanto la fila era cresciuta, la gente sbraitava alzando la voce e tra chi imprecava, chi bestemmiava e chi pronunciava frasi sconnesse e volgari si alzò la voce di una ragazza che gridò “MA QUANTO CI VUOLE ANCORA? CHE INFERNO!!!”.

Ciro a quel punto guardò Gaetano attraverso il vetro, abbozzò un sorriso complice e gli disse “…e questo sarebbe l’inferno? La signorina deve avere le idee confuse, vero, signor Gaetano?”.

Ritirò la sua ricevuta, salutò educatamente con un formale “grazie e buon lavoro”, voltò le spalle e si incamminò verso l’uscita.

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(dal blog “La carne e i maccheroni”, Febbraio 2010)

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La vera storia di HEIDI: ciò che nessuno ha avuto il coraggio di raccontare…

Heidi

“Heidi, Heidi, le caprette ti fanno CIAO”… o almeno così si credeva, fino a non molto tempo fa: le montagne svizzere, teatro delle (dis)avventure che ruotavano intorno alla bambina dalle guance rosse in realtà nascondevano uno scenario perverso e scabroso. Heidi ormai si avvicina alla soglia delle 35 candeline, vive una vita stravolta e completamente sregolata vendendo film hard e videogiochi masterizzati su una bancarella vicino alla stazione centrale, ma finalmente ha trovato il coraggio di raccontare la sua storia.

Tutto cominciò a causa del nonno. Già, proprio lui: giocatore incallito ai videopoker, ha bruciato in pochissimo tempo la pensione e i pochi risparmi accumulati sotto la mattonella, così ha dovuto affittare le pecore ai pervertiti depravati nel paese, che avevano incomprensibili quanto assurdi desideri erotici. Ma l’assessore alla salvaguardia caprina (sì, c’era proprio quello) denunciò questo insolito e terribile episodio al WWF e alla PETA, e fu introdotto, con un decreto legge emanato in tempi record, il reato di sfruttamento della prostituzione ovina (non scrissero “pecorina” per evitare facili battutacce) così il nonno dovette pagare una multa salata, che azzerò i suoi introiti e raddoppiò i suoi debiti.

Heidi come al solito sorrideva, ma essendo all’oscuro di tutto non aveva capito un cacchio, anche se, osservando le pecore barcollanti, decise un brutto giorno di chiedere al nonno “come nascono i figli”. Il nonno, per darle una risposta, inizialmente pensò di mostrarle un film con Rocco Siffredi (disponeva dell’intera filmografia), poi andò ben oltre chiedendo alla bambina se “davvero ci teneva a saperlo”. Così la fece ubriacare (infatti da quel giorno spuntarono le classiche guance rosse) e le diede una dimostrazione fin troppo pratica.

Per questioni di decenza ed etica, vorrei evitare la descrizione dettagliata di questo episodio. Posso solo dire che Heidi, come al solito, sorrideva senza motivo.

Fu in quell’occasione che scoprì prematuramente una delle cose più belle del mondo con la persona più schifosa del mondo: il nonno, a parte gli aspetti morali, puzzava di gorgonzola; per lavarsi i denti metteva sullo spazzolino lo squacquerone romagnolo e scatarrava formaggini; aveva le piattole perfino nella barba e il suo alito era peggio di una fogna a cielo aperto: le mosche mantenevano la distanza di sicurezza e non si avvicinavano in quanto rischiavano di rimanere stecchite. Ma Heidi sorrideva sempre, e come al solito non aveva capito niente.

Da quel giorno Heidi finalmente riuscì a interpretare lo shock che aveva terrorizzato in quel modo le pecore; infatti, contrariamente a ciò che riporta la sigla, da allora le caprette non facevano più “CIAO” ma chiamavano direttamente il telefono antistupro. Intanto il nonno, per definire le nuove strategie commerciali e la linea di business della sua azienda a conduzione familiare (“RICOTTA PECORINA”, una società a responsabilità MOLTO limitata) cercava di trarre profitto dalle poche risorse disponibili, così convocò Peter, che non era proprio lo stinco di santo che molti conoscono: abbozzò un organigramma con la punta del coltello sul tavolo di legno, e disegnò tre rettangoli scrivendo in ciascuno: “Nonno: chief officer, Peter: quality assurance, Heidi… customer relationship”. Insomma, il nonno organizzava, Peter faceva il pappone (o “ricottaro”, definizione più consona anche in virtù dell’esperienza nella produzione casearia) e Heidi… addetta alle relazioni con i clienti.

Heidi alla vista di quel disegno esclamò “che culo!”, e Peter rispose pronto: “brava, questo è proprio lo spirito giusto!”. Heidi sorrideva, ma come al solito non aveva capito niente.

Così inaugurarono la nuova attività lucrativa: invece di tagliare il classico cordone rosso, tagliarono le mutande di Heidi, e ispirandosi alla classica bottiglia di champagne rotta sulla prua di una barca, scassarono una bottiglia di Falanghina sulla testa della piccola. E Heidi sorrideva, nonostante il sangue che le scendeva sulla fronte. Continuarono per tutta la notte cantando i pezzi degli Squallor ed erano felici (specialmente le pecore). Heidi come al solito sorrideva, ma per la sbronza.

Partì la campagna pubblicitaria: il nonno mostrava Heidi e recitava “questa è Heidi, la mia nipotina, e la amo tantissimo. Anche voi potete amarla, con soli 40 franchi svizzeri, Iva inclusa ed Eva a parte, oltre agli sconti per comitive!”

In poco tempo il nonno pagò i suoi debiti, viaggiava in limousine e quando andava alle sagre di paese, che lui amava definire “serate di gala” ci portava anche le pecore: diceva che erano “le sue conigliette” ma ogni volta che qualcuno gli faceva notare la differenza tra un coniglio e una pecora, si incazzava come un mulo in andropausa e bestemmiava tutto il bestemmiabile. Peter, che si faceva chiamare “papi” (era il diminutivo di “pappone”) era molto attento alle direttive del nonno: una sera quest’ultimo gli disse di prendere qualche nuova escort, e Peter tornò con una Ford completamente scassata che non aveva nemmeno passato la revisione (per procurarsi quel bidone a quattro ruote aveva offerto una prestazione di Heidi al cantiniere del paese) ma il nonno andò su tutte le furie per la poca perspicacia del ragazzo, e soprattutto, non sapeva cosa fare con quel ferrovecchio. Heidi, sorridendo per l’incazzatura, si rese conto che le prestazioni con quel vecchio maiale del cantiniere non erano servite a nulla. Così fece indossare a Peter un completo azzurro e lo fece violentare da un cavallo bianco… lo sanno in pochi, ma si tratta di una fantasia molto diffusa tra i cavalli bianchi. Guardando quella scena, Heidi sorrideva, e una volta tanto aveva una buona ragione per farlo.

Peter, la cui perspicacia decisamente non rappresentava la dote principale, dopo le conseguenze che seguirono il rapporto col cavallo riflettè sul suo errore, e fece ancora peggio: credeva che la reazione del nonno era dovuta all’anno di immatricolazione della Ford (dopotutto aveva parlato di una “nuova escort”), così sperperò tutti risparmi per acquistare una Ford Escort a chilometri zero, trovata su eBay ed esposta su una bancarella a Bangkok. Dopo aver speso un capitale anche in spese di spedizione, orgoglioso, la portò al nonno, che a quel punto tirò fuori una bestemmia talmente blasfema da far suonare contemporaneamente tutte le campane nelle chiese nel paese.

Dopo quello sfogo degno della più severa scomunica, il nonno decise di cacciarlo a calci; da fonti inattendibili, risulta che Peter attualmente continua a lavorare in quel campo, e si è trasferito in Ungheria. Scelse di andare lì per due ragioni; un pò perchè effettivamente ci sono belle ragazze, e un pò perchè non capisce neanche una parola di quella lingua; almeno non avrebbe combinato altre stronzate o poteva nascondere la sua idiozia dietro l’alibi della scarsa comprensione.

Heidi intanto rimase sola col nonno; di giorno “arrotondava” lavorando nel bordello della zia (“la baita”), che offriva spettacoli hard e lap dance, mentre la sera e la notte lavorava nel giro che il nonno puntualmente organizzava con cura e meticolosità. E comunque sorrideva, ormai a causa di una paresi. Gli affari andavano bene, e Heidi aveva finalmente tolto l’ipoteca dal suo San Bernardo mentre il nonno intascava quattrini su quattrini.

Ma l’inizio della fine cominciò a manifestarsi quando il nonno preparò la dichiarazione dei redditi; come avvenne con Al Capone, incastrato per una “semplice” evasione fiscale, il nonno commise l’imperdonabile errore di far redigere il 740 al cantiniere che procurò la vecchia Ford Escort a quell’incapace di Peter; infatti, il cantiniere era analfabeta e compilò il modulo pensando di trovarsi di fronte a una schedina del totocalcio: scrisse solo 1,2,X e pretendeva anche una percentuale sul “win for life”.

Arrivò la Guardia di Finanza e perquisì la casa del nonno; trovarono ogni sorta di giocattolo erotico; il nonno si giustificò dicendo che erano della nipotina, ma i finanzieri rifiutarono di credere che, tra strani oggetti di forma cilindrica, manette e frustini, quella bambola di Antonio Banderas a grandezza naturale (con due gambe e mezza) fosse soltanto un banale giocattolo, specialmente per il fatto che era gonfiata con una pressione di cinque atmosfere (farebbero scoppiare la ruota di un’auto!) ed emetteva strani “gemiti” una volta sollecitata in prossimità di alcuni sensori collocati in zone “strane”.

I tentativi di negazione del nonno durarono poco; intanto sfortuna volle che Heidi, sorridendo ancora a causa della paresi, mentre stava contando il gruzzolo di banconote che stringeva tra le mani aprì la porta di casa mezza nuda, con i capelli sconvolti, gli abiti strappati, le calze a rete smagliate, il trucco spalmato sulla faccia e una Marlboro stretta tra le labbra. Sgranò gli occhi e fece un salto alla vista dei Finanzieri; Heidi in fondo era perspicace e capì che qualcosa di brutto stava per accadere, così provò a mettere in campo l’unica cosa che sapeva fare: propose un’ammucchiata con tutti i militari, ma questi ammanettarono immediatamente il nonno e affidarono la piccola (con le pecore) ai servizi sociali.

Heidi da quel giorno smise di sorridere e miracolosamente la paresi scomparve.

Fu affidata a un sacrestano e poi a un prete, ma Heidi rimpiangeva ancora il nonno: era quello che faceva meno schifo di tutti. Così decise di scappare e iniziò a vivere di stenti, fino al giorno in cui ha deciso di svolgere un “lavoro onesto”: vendere film hard e videogiochi masterizzati su una bancarella; il nonno invece sta scontando un ergastolo per sfruttamento della prostituzione, falso in bilancio e abusi sessuali su minori, ed ogni giorno i suoi “compagni di cella” allietano il “soggiorno” con sodomizzazioni continue; infatti il “codice etico interno”, in carcere, prevede gravi sanzioni, poco ortodosse, per chi tocca i bambini.

Questa è la triste storia di Heidi; qualcuno penserà che ho inventato tutto, invece spero che i lettori possano aprire gli occhi e accettare la triste realtà. Purtroppo è difficile rassegnarsi al fatto che dietro quella storia così innocente si nascondeva una squallida vicenda di sfruttamento della prostituzione con contorni a dir poco osceni. E’ ancora più difficile accettare questa triste verità, specialmente quando si parla di una favola che ha segnato l’infanzia di molte persone.

Tra queste persone, ahimè, ci sono anch’io… e le conseguenze di questo “shock” si manifestano ancora oggi… in pratica, sono sotto i vostri occhi, proprio in questo momento…
P.S. : Ci sono alcuni “buchi narrativi” volutamente lasciati in bianco; in particolare riguardano la zia di Heidi (la maîtresse del bordello “la baita”) e Clara, la povera bambina costretta sulla sedia a rotelle non a causa di una malattia, come si credeva, ma piuttosto per una performance estrema imposta dalla zia, che purtroppo si è rivelata fatale. Preferisco omettere dettagli scabrosi e lascio le possibili ipotesi alla fantasia dei lettori (…e ce ne vuole davvero molta!).

 

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Il rumore del silenzio: incubo di una notte di mezza estate.

Era una notte di ordinaria follia, quella organizzata da quattro “superstiti” in città, la sera di Ferragosto; la modesta “follia” consisteva in una passeggiata presso un locale adiacente alla spiaggia; si ballava, c’era il ristorante e tutte le attrazioni per “catturare” il pubblico. Era un locale ben organizzato e ce n’era per tutti i gusti: una zona prevista per le persone che volevano ballare tra i decibel spaccatimpani, una zona con i tavoli per chiacchierare tra amici, una zona con il bar e il sottofondo lounge, e poi c’era una sorta di privè, con le poltrone sulla spiaggia destinate alle coppie che desideravano un pò di riservatezza.

Quella sera la parola d’ordine era “divertimento”. Molti vivevano il “divertimento” parlando tra loro, prendendosi in giro, raccontando barzellette, mentre altri vivevano il “divertimento” sulla pista da ballo; al di là delle conoscenze tra potenziali futuri partner, quel luogo era diventato il tempio dell’emulazione, dove ciascuno si trasformava in qualcosa che non si capisce da dove viene; non si capisce cosa sia, ma soprattutto non si capisce dove è in grado di arrivare; ragazze di tutte le taglie e tutte le età che, in gruppi di minimo due, ballavano tra loro mimando chissà quale attrice e chissà quale scena: si fissavano sempre negli occhi durante i movimenti, più o meno sinuosi, cercando una conferma reciproca; la sigaretta era costantemente stretta tra le labbra, quasi come una parte integrante della “coreografia”, mentre i ragazzi appoggiati al muro fissavano le natiche di queste con le mani in tasca, urtandosi tra di loro e indicando con lo sguardo la “modella improvvisata” di turno; era la lampante simulazione dello stereotipo, ormai inflazionato, del “bel tenebroso”, nonostante in certi casi capitava di vedere poche “tenebre” e ancor meno bellezza.

Quelle che sembravano amiche per la pelle, al punto da simulare una complicità necessaria per quello spettacolo, probabilmente non erano neanche grandi amiche, o lo erano diventate per l’occasione: giusto il tempo necessario per racimolare qualche ragazzo, e poi ciascuna proseguiva sulla propria strada. I ragazzi apppoggiati al muro ormai sembravano ipnotizzati da quelle rappresentazioni improvvisate; l’unica cosa in grado di catturare la loro attenzione era concentrata sulle tette, sui glutei, sugli addominali scoperti, su qualche tatuaggio e sugli altri dettagli che andavano dal petto verso il basso. Il “rituale” subìva una scossa quando il dee-jay lanciava un disco particolarmente gettonato o apprezzato; le ragazze saltavano d’improvviso, sgranavano gli occhi mostrando l’espressione tipica della sorpresa inaspettata, si abbracciavano e gridavano: sembrava la reazione che normalmente segue una bellissima notizia, invece si trattava solo del brano che piaceva di più, e dopo quei salti di gioia, continuavano a ballare come prima, continuavano a muoversi con i movimenti più o meno sinuosi “cantando” il ritornello con le sopracciglia e le espressioni che hanno visto in TV, sempre fissandosi negli occhi, sempre con la sigaretta tra le labbra, sempre tra abbracci e carezze al limite dell’approccio saffico.

Quando questo spettacolo ben studiato portava all’atteso risultato, capitava di assistere a un’altra scena insolita: il ragazzo “accalappiato” in piedi e la ragazza che gli balla accanto, accarezzandolo, strofinandosi vicino e ripetendo in continuazione una sorta di lap-dance interrotta di continuo, dove il palo questa volta è umano, e di sesso maschile. Non era difficile leggere la noia nel pensiero di quei ragazzi, che erano “osannati” per ore, in questo continuo “rituale” del “coito interrotto” intorno al palo; la solita scenografia accuratamente costruita e realizzata frettolosamente da chi, per l’ennesima volta, vuole diventare “importante” nella solita, quasi monotona, serata “speciale” che si ripete in modo più o meno puntuale ogni settimana.

Questo era il “divertimento”, incorniciato da una notte incantevole di Agosto illuminata dal riflesso della luna piena sulla riva del mare, una leggera brezza e un cielo luminosissimo dove spiccava la stella polare, circondata da un centinaio di altre stelle. L’orizzonte sembrava più infinito del solito mentre un uomo con lo sguardo distratto fissava il vuoto, seduto in riva al mare, su quel pezzo di spiaggia che custodiva i suoi ricordi più belli.

Quella spiaggia era un efficientissimo guardiano silenzioso: conservava in uno scrigno immaginario i momenti brevissimi e intensi di tante persone, teneva per sè centinaia di storie da raccontare, custodiva gelosamente quelle emozioni che neanche una vita intera vissuta intensamente sarebbe in grado di portare via; pochi attimi di vita che una volta invocati, come una magia, avevano il potere di spazzare in un momento tutto il male che una persona può portare dentro di sè; quell’uomo osservava il palo dell’ombrellone al suo fianco e ricordava una notte vissuta dieci anni prima, in un posto come quello, mentre passeggiava a piedi nudi sulla sabbia tenendo per mano la sua ragazza; era una storia iniziata da pochi giorni, l’entusiasmo era a mille e l’alba di un sentimento iniziava a mostrarsi; quella notte si erano seduti proprio lì, accovacciati davanti a quell’ombrellone: un riferimento anonimo, insignificante, ma ancora inconfondibile a distanza di tanto tempo. Quel flashback ricorrente, tra le onde del mare calmo continuava ad accompagnare il suo sguardo perso nel vuoto; ogni volta che la sua mente ritornava su quei ricordi, la bocca non riusciva a trattenere un sorriso smorzato; questo succedeva anche quando l’umore era ai minimi termini, proprio come quella sera.

Alle sue spalle, dietro alle sedie a sdraio, qualche altra coppietta di ragazzi, intenta a godere quel panorama spettacolare; abbracciati, mano nella mano o con il ragazzo che, di spalle, abbracciava la ragazza stringendola a sè; tutto questo avveniva con la discrezione e il silenzio che il contesto meritava: un rituale da osservare con profondo rispetto per impedire che il rumore potesse, in qualche modo, disturbare la magia di quegli istanti, mentre l’eco lontano della musica e degli schiamazzi trasmetteva la distanza tra quei due contesti, che sembravano due mondi paralleli a distanza di poche decine di metri.

Nel silenzio rotto soltanto dalle onde calme e il bisbiglìo delle coppiette si riusciva a distinguere qualche promessa di amore eterno o qualche frase romantica che aveva il sapore della sincerità col retrogusto dell’ipocrisia; ragazze illuse accanto a ragazzi indecisi, ragazzi increduli accanto a ragazze immature… ce n’era per tutti i gusti; l’unica costante era rappresentata dalla solita “nota stonata” che si manifesta tra le sfumature dell’incoerenza… ma qualcuno disse che “la coerenza è la virtù degli stolti”.

Tra i sìbili delle frasi pronunciate a bassa voce e quel ritmo scrosciante delle onde, finalmente l’uomo decise di non trattenere più quello sfogo che a tutti i costi voleva abbandonare la sua anima. Gli occhi lucidi non trattenevano più le lacrime, e il viso si bagnò lentamente fino alle labbra; un paragone tra “fallimento” e successo era evidente, e costante. Si guardava intorno, vedeva ovunque persone che conducevano una vita “migliore” della sua, e anche se spesso scopriva che quel “benessere” era solo ipocrita apparenza, sapeva bene che perfino l’ipocrita apparenza, per quanto ripudiata, sembrava lontana dalle sue possibilità. La depressione più acuta qualche volta lo spingeva a fare ragionamenti estremi, pensava sempre che “nessuno avrebbe pianto al suo funerale” tranne un paio di persone, o peggio, che nessuno avrebbe mosso un dito se finiva in ospedale. Tranne il solito paio di persone, e forse aveva ragione.

Una vita vissuta con priorità stravolte; avvolto dalle responsabilità e avvilito dalle delusioni, aveva abbandonato gradualmente l’idea di conquistare quella felicità inseguita da tutta la vita. Normalmente ripeteva, tra sè e sè una frase che sembrava un tormentone: “verrà un giorno”; quella sera, guardandosi intorno, sembrava rendersi conto che il suo obiettivo sembrava più irraggiungibile del solito. E anche stavolta, forse, aveva ragione.

Mentre la musica, le minigonne delle ragazze e gli addominali palestrati dei ragazzi spingevano gli sguardi di tutte le persone verso il basso, sulla spiaggia, in riva al mare, c’era un uomo solo che in silenzio osservava uno spettacolo diverso, che nessuno sembrava aver notato in quel casino: un cielo stellato, i lampioni della città lungo la costa che si riflettevano sull’acqua, le luci di una barca in lontananza e il bagliore della luna.

Ma per osservare quella composizione pittoresca era necessario alzare la testa e lo sguardo: bisognava puntare verso l’alto, iniziando a fissare l’orizzonte: forse, in fondo, era l’unica ragione per cui quell’uomo era lì da solo, in compagnia dei suoi pensieri e dei suoi ricordi. Nessuno faceva caso a quella sagoma sulla riva: le telecamere di un immaginario “grande fratello” erano puntate altrove; i “riflettori” erano interessati alla “vita mondana” che si svolgeva sulla spiaggia: del resto, ciò che conta davvero è il “divertimento”.

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(dal blog “La carne e i maccheroni”, Agosto 2009)

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Bisogni primari

Don Gaetano l’aveva presagito, l’aveva intuito e l’aveva sempre sostenuto: da economo specializzato in sterili discussioni al bar, aveva più volte preannunciato che “sarebbe arrivato il giorno”, e lo diceva con l’aria del profeta che contraddistingue i sagaci risparmiatori, quella “razza” in via di estinzione che continua a optare per il gruzzolone nascosto dietro la mattonella.

Ovviamente era nel giusto: aveva sempre avallato la teoria secondo la quale “i soldi non avranno più alcun valore”, e quando la tv vomitava pubblicità su pubblicità di finanziamenti, prestiti, carte di credito e prodotti per il cosiddetto risparmio, puntualmente, si incazzava come una bestia, e nelle migliori circostanze imprecava. Nelle peggiori invece bestemmiava blasfemìe che avrebbero orchestrato in modo magistrale i suoni di tutte le campane nelle chiese della sua città.

Si incazzava perché non capiva la differenza che la gente fa tra “necessità” e “superfluo”, imprecava quando al supermercato qualche promotore offriva carte di credito a condizioni “interessanti” che puntualmente rifiutava in modo categorico di approfondire, andava su tutte le furie soprattutto quando i “vantaggi” erano fittizi e vincolanti ad altri prodotti, tipo la carta American Espress che regalava le “miglia” sui viaggi aerei: “ma se non alzo il culo dalla sedia… che cazzo ci faccio con ‘ste miglia?”.

Tempi duri per Don Gaetano, che aveva ormai subìto l’assuefazione dagli spot televisivi: avrebbe voluto dare un calcio negli zebedei a quell’anziano sorridente che nel suo “TIGGI’ O” presentava i vantaggi di “Prestitò”, e magari si faceva prestare il sale dalla vicina perché non poteva più permetterselo a causa dei debiti. E le pubblicità in TV delle banche, con le coreografie, le facce sempre sorridenti, gli slogan più o meno ricercati, la felicità che sprizzava da tutti i pori degli attori che interpretavano gli spot… ma la lingua batte dove il dente duole, e Don Gaetano inevitabilmente paragona tutto ciò a sè: puntualmente iniziava a mugugnare, parafrasando uno spot piuttosto affermato: “la mia banca è INDIFFERENTE…” e ogni volta concludeva la frase con una sottile bestemmia rivolta ai defunti.

Ma se la sua posizione era così ferma, contro tutte queste forme di “apertura” del credito, lo stesso non si poteva affermare della moglie, anziana telelobotomizzata, assidua spettatrice di telenovelas, attenta di fronte a ogni sorta di televendita: donna Carmela avrebbe scialacquato ogni sorta di risorsa per acquistare il set di spazzoloni da bagno in TV, ma fortunatamente la parsimonia di Don Gaetano riusciva a calmare quegli istinti irrefrenabili e incontrollati, anche utilizzando tecniche poco nobili: nella peggiore delle ipotesi si ricorreva a una lite furibonda, nella migliore, invece, Don Gaetano sabotava la TV infilando un fusibile difettoso dietro la spina a 220v e, d’accordo con il tecnico, simulava l’impossibilità di riparare l’apparecchio per una durata concordata di volta in volta.

Ma le tecniche utilizzate per far desistere donna Carmela, più o meno raffinate, venivano di colpo annullate quando, almeno una volta al mese, era necessario provvedere alla spesa presso il centro commerciale: donna Carmela sembrava una bambina appena entrata nel luna park, osservava tutte le “trappole in agguato” per i visitatori e trascinava il marito a sè come un cagnolino, tirandolo da una vetrina all’altra, mentre quest’ultimo imprecava come un caprone sodomizzato da un mulo. Puntualmente, stand dopo stand, tra promotori invadenti e promotrici ammiccanti, Gaetano riusciva, in modo più o meno brillante, a dribblare quel percorso a ostacoli per recarsi all’ingresso del reparto alimentari, senza “danni” e “adesioni impreviste”.

Dopo una spesa piuttosto consistente, che prevedeva anche qualche provvista, Gaetano arrivò alla cassa: il conto ammontava a 324 Euro, ed appena la cassiera emìse la sentenza, il “condannato” gridò “A’ FACCIA D’O…” ma con arrivò a concludere quella frase a causa della gomitata nei fianchi che donna Carmela gli diede giusto in tempo, mentre la gente in fila, col fiato sospeso, attendeva ansiosa la parolaccia che seguiva quell’imprecazione.

Per fortuna Gaetano, prima di entrare, era passato dal bancomat e aveva prelevato 350 Euro, e proprio mentre i due stavano per uscire, quest’ultimo si era fermato un attimo col carrello, per sistemare il resto nel portafogli; intanto fece il madornale errore di dire, ad alta voce “devo andare a prelevare un’altra volta… mi sono rimasti solo 20 Euro nel portafogli”…

L’errore non era riferito alla sua affermazione, ma Gaetano, frastornato dal salasso e preso dal portafogli, non aveva fatto caso allo stand vicino all’uscita: c’era un logo minaccioso MASTERCARD in bella mostra e uno spigliato promotore giovane, dall’apparenza brillante e molto attento. Così, agguantata la preda, si avvicinò a donna Carmela: durante il corso di addestramento gli hanno insegnato che tra un uomo con gli occhi pieni di lacrime che guarda il portafogli e una donna che conduce un carrello pieno di spesa all’uscita, bisogna iniziare l’approccio con la seconda, in quanto l’opposto provocherebbe una reazione incontrollata, in bilico tra la scostumatezza e l’intervento manesco.

“BUONGIORNO SIGNORA, HA PRESO UN BEL PO’ DI COSE, VEDO…”

Dopo questo approccio, Gaetano e donna Carmela risposero contemporaneamente, ma dicendo due cose completamente diverse: Gaetano provò, invano, a liquidare il suo interlocutore con un secco “NO GRAZIE, NON CI SERVE NIENTE”, mentre donna Carmela nella sua “provocatoria ingenuità” disse “eh sì… abbiamo speso parecchio…”. Ecco: la trappola era scattata. Gaetano tirava per il braccio Carmela, ma, a differenza delle altre volte, il tentativo non andò a buon fine: esasperata, Carmela iniziò a gridare, e tutta la gente si fermò per ascoltare: “E LASSA STO BRACCIO… ogni volta mi tiri, mi tiri… FAMME SENTI’ NA VOTA TANTO DI CHE SI TRATTA!!!”.

Era la fine: Gaetano stavolta aveva perso: neanche il tempo di rispondere alla moglie che il bravo promotore era entrato nel vivo della presentazione: “…con la nostra carta può acquistare in tutta libertà e pagare in comode rate mensili con un tasso vantaggioso e un piano personalizzabile…”; Gaetano ascoltava con una mano che gli manteneva la fronte, ma Carmela invece era affascinata da quelle parole; “…infine potrà prelevare denaro contante da qualsiasi sportello bancomat, anche all’estero, pur non disponendo di liquidità sul conto corrente, con un anticipo a tasso vantaggioso che sarà anch’esso regolato da una rateizzazione…”.

Gaetano pensò allora al “piano B”: quest’ultimo consiste nel far parlare l’interlocutore fino alla fine, per poi far finta di riflettere attentamente sulle sue parole e infine rifiutare l’offerta, simulando un’attenta riflessione tra i costi e i benefici, in modo da sembrare convincente sulla sua ponderata analisi fasulla. Non aveva ancora sperimentato per bene quella tattica e non era sicuro dei risultati, ma quella fu una buona occasione per mettere in pratica la sua teoria: il promotore ormai era arrivato alla fine della sua “arringa” e si trovava di fronte uno scenario davvero confuso: alla sua sinistra don Gaetano con un broncio che ricordava un ordigno esplosivo pieno di nitroglicerina, e alla sua destra Carmela, con un sorriso estasiato che ricordava le vecchiette in piena crisi mistica durante la messa.

A quel punto era arrivato il momento della verità: tirò fuori il foglio per la stipula del contratto e sfilò la sua Montblanc dal taschino della giacca, porgendola a don Gaetano per la firma. Quest’ultimo sperimentò il “piano B” ma essendo la prima volta non riuscì ad essere convincente: quella timida risposta “mi dispiace, ma non credo che questa soluzione faccia al caso nostro” funzionò veramente poco e l’astuto promotore se ne accorse, così incalzò verso la moglie: “è una buona proposta: signora, lo dica a suo marito!” con un sorriso ammiccante che stava per strappare uno dei più violenti schiaffoni dalle mani di Gaetano, che era contrario alla violenza salvo rare eccezioni.

Donna Carmela a quel punto decise di mostrare il suo valore, prendendo in mano la situazione: si girò verso il marito, che continuava a strattonarla per uscire da quel posto, ma quel tentativo di dissuasione non ebbe buon esito: “GAETA’ BASTA! SEI RETROCR… RETROG… GAETA’ SI VVIECCHIO!”; e quelle grida provocarono la seconda reazione della gente a passeggio: tutti si fermarono per girarsi e sentire cosa stava succedendo. Ma donna Carmela non aveva finito: “MA TU TE SI’ FISSATO CA’ CHISTE SO TUTTI MALAMENTI! POSSIAMO COMPRARE UN SACCO DI COSE, PUTIMM PIGLIA’ NA COMODITA’ E TU INVECE SEMPRE CON LA STESSA CAPA? GAETA’ IO ME SO SCOCCIATA! TU DEVI ESSERE UN PO’ PIU’ APERTO, TU DEVI INIZIARE A CAPIRE CHE LE COSE SONO CAMBIATE…”… e ormai il treno era partito e proseguiva spedito per la sua rotta senza meta.

Gaetano ad un certo punto, vuoi per la rabbia, vuoi per la vergogna dovuta a quella sfuriata, decise di firmare il contratto, diventando così il fortunato possessore di una carta di credito su circuito MASTERCARD con i disegni di Bart e Homer Simpson sulla facciata, ma appena firmò quella carta salutò il promotore a denti stretti e tirò per un braccio la moglie fuori dall’ipermercato, senza dire una parola. Donna Carmela effettivamente si rese conto di aver esagerato, e capì che il marito era incazzato peggio di tutte le altre volte: quel silenzio di tomba rifletteva fin troppo il suo umore sul filo del rasoio.

Terminato il carico dei bagagli, Gaetano accese l’auto: aveva ingranato la prima e stava per staccare il piede dalla frizione, sempre nel più totale silenzio e con la rabbia in corpo crescente in modo esponenziale dopo ogni secondo che trascorreva, ma quel silenzio fu interrotto dalla moglie che, quasi impaurita gli disse a voce bassa: “uuuh… Gaetà… abbiamo dimenticato una cosa…”. Gaetano con la sufficienza di un lama che stava pronto per sferrare una terribile gratificazione salivare rispose: “che cosa? Hai dimenticato di farmi fare qualche altra figura da niente?”; “no, Gaetà… ci siamo distratti e abbiamo dimenticato di prendere la carta igienica!”, ma Gaetano fece partire l’auto e mentre girava lo sterzo per uscire dal parcheggio, gridando come un pazzo tagliò corto: “PER TUTTO IL RESTO C’E’ MASTERCARD, GIUSTO?”. Ma donna Carmela, con la voce bassa dovuta alla paura per un altro rimprovero, aggiunse, con un filo di voce: “Gaetà, ma quella è di plastica!”.

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(dal blog “La carne e i maccheroni”, Agosto 2009)

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