Pace interiore

Le grandi cittá sono strane… le persone hanno bisogno di identificarsi, perchè ciò che manca è proprio l’identitá. Ne creano una, collettiva, unica, e quella è la culla della moda, il conformismo, la tendenza; in pratica tre termini che piacciono, e sono usati da tutti, il cui significato è talmente ambiguo da non capirne piú il senso.

I pochi che hanno conservato una sorta di identitá sono relegati a definizioni impietose; l’affermazione “avere carattere” corrisponde nella maggior parte dei casi a un’ambiguitá, a una stranezza o, almeno, a un significato assolutamente confuso.

La tv ormai non è più una compagnia, ma un vero e proprio oracolo; non si limita a suggerire, ma con prepotenza impone cosa fare: gli effetti di circa quarant’anni di bombardamenti mediatici hanno raggiunto un risultato ormai consolidato, e le tecniche di persuasione sono state incredibilmente raffinate; addirittura nei servizi giornalistici non si bada più nemmeno ai condizionali messi al posto dei congiuntivi, e l’ignoranza, estesa anche fuori dai perimetri linguistici, è ormai fuori controllo. Omologazione, globalizzazione, uniformitá sono passati da disonore a vanto; perfino il senso estetico delle cose si adegua alle imposizioni di qualcuno o qualcosa. Il neologismo “standard” (che ormai tanto neologismo non è) detta perfino i canoni estetici cambiando connotati al ritmo del “tormentone dell’estate” e infine la ribellione degli anticonformisti è diventata più conformista dei conformisti stessi; standard, appunto… nonostante le tante vite brevi che eredita questa strana parola.

Chissá che fine ha fatto l’individualitá, in un contesto dove l’unione fa la forza, e per uscire dal limbo dei tanti “signor nessuno” si preferisce un gregge, convinti di riconoscersi in qualcosa che manco si riesce a comprendere. O si comprende, troppo tardi, che proprio nel gregge l’individuo si è perduto.

Perfino l’umorismo cambia faccia: fa ridere ciò che diventa comico,ma che di comico non ha nulla; la persuasione sistematica funziona: frasi, spesso stupide, ripetute a mò di citazione, ma in realtá prive di un senso compiuto, o estratti da qualche show pseudo-divertente spacciato per cabaret; la somministrazione mediatica prima o poi rende quelle citazioni parte integrante del linguaggio quotidiano. Ma questo lo dice chi vive di pane e psicologia, non certamente un idiota come me che fa riflessioni da bar in perle da bigiotteria di saggezza spicciola.

Eppure ricordo i tempi della mia giovinezza: mi ero avventurato nel fare il musicista, il dj, l’attore teatrale e manco ricordo gli altri “sfizi” che mi sono tolto, tutti durati il tempo necessario per accontentarmi, e per dire “è un’esperienza che ho vissuto”, da portare nei ricordi piacevoli, anche se ciascuno di questi ambiti, trascina con sè le vittime del più sfrenato fanatismo; espressione, secondo la mia modesta opinione, della mediocritá più estrema. Ma l’immagine che piú resta impressa è ambientata nelle discoteche dove ho lavorato come dj: sulla mia musica ballava, puntualmente, un tipo che sembrava appena uscito da un trattamento estetico durato chissá quante ore, con occhiali scuri sul viso abbronzato, anche se le luci basse interrotte continuamente dagli epilettici flash delle lampade stroboscopiche lasciavano ben poco al senso della vista. Ogni sera, sempre, c’era il “fighetto” o la “fighetta” che ballava ininterrottamente guardandosi allo specchio, e mimando mosse piú o meno sensuali scopiazzate dalla tv. Poteva anche crollare il mondo, ma l’ossessione data dall’immagine di sè superava qualsiasi altra prioritá; col senno di poi, mi chiedo oggi, dopo tanti anni, come si saranno trasformate in “scarponi” quelle “scarpe” (chirurgia estetica permettendo). Ogni sera c’era un soggetto diverso, e facevo le scommesse con me stesso quando, prima di iniziare la serata, “puntavo” sul “cavallo vincente” osservando le persone in fila per l’ingresso; a volte ci ho azzeccato, a volte no… ma la scena era sempre quella, nonostante il fatto che ero impegnato a “guidare” la serata dalla console: un “posto di comando” dal quale potevo osservare tutti, sfruttando una posizione privilegiata. Ci lavoravo nelle diacoteche, e mi divertivo facendo quel lavoro. Ma in realtá le ho sempre disprezzate con tutto me stesso, inorridito al solo pensiero di trascorrerci una serata da “cliente”.

E poi mi ritrovo con tanti anni trascorsi, con la testa più o meno al suo posto, un pò per scelta e un pò per forza; lavoro, ritmi frenetici dettati piú dal desiderio di apparire delle persone a caccia di ambizioni che dalle reali esigenze professionali, in un contesto dove il fittizio ha piú valore del reale, e dove ogni giorno si combatte una guerra spietata, cambiando nemico da un momento all’altro, per poi dimenticare perfino il fine ultimo della battaglia. Nella societá perversa dove vince il “lei non sa chi sono io” bisogna emergere, a tutti i costi, per poi scoprire che uno strano masochismo porta a desiderare ciò che renderá infelice il vincitore; come se non bastasse, l’argomento è tabù: guai a parlarne in giro… con la disoccupazione che c’è si rischia un linciaggio, o nella situazione migliore, qualcuno fará presente che comunque sono un fortunato, e sotto molti aspetti, è impossibile dargli torto.

A volte chiudo gli occhi e penso a Capo Nord, quando salii sulla moto, dimenticai ogni contatto col mondo quotidiano e feci quel viaggio in assoluta solitudine. Penso a Madeleine e Danee che mi ospitarono a casa pur essendo un perfetto sconosciuto, penso alla prima volta che vidi una renna in mezzo alla strada, in Finlandia: c’era una curiositá reciproca ed entrambi ci studiammo per diversi minuti, finchè ciascuno andò per la sua strada, penso al promontorio di Hoga Kusten a Lakselv, in Svezia, con quel tramonto mozzafiato sotto la pioggia, o quel nodo in gola dopo aver visto il primo panorama che apriva il sipario sul mare di Barents; penso all’oceano Artico, quando si mostrò a me per la prima volta dopo migliaia di chilometri: la strada alberata che percorrevo finiva su un bivio con l’oceano di fronte. Man mano che mi avvicinavo sparivano gli alberi e restava l’oceano, e quel sipario che si apriva lentamente per mostrare uno spettacolo unico rappresentava il meritato premio per aver attraversato l’Europa, in un silenzio assordante e una devastante discrezione; penso a Knivskjellodden che avevo raggiunto a piedi, mettendo la firma n.203 su quel diario sigillato in capo al mondo, tanto raccontato dalle leggende dei sognatori. Penso a quel terremoto di emozioni che rappresentava il più bel premio che potesse ricevere chi era alla ricerca di se stesso, ogni volta che varcavo un confine, e ogni volta che constatavo di essere troppo lontano per tornare indietro e troppo lontano per raggiungere il traguardo: ero semplicemente in balia del viaggio e in preda alla libertá; quella libertá in cui, grazie alla moto, decidevo io cosa fare e dove andare, senza regole, senza limiti… qualcosa che pochi riescono a capire, o immaginare. E infine l’isola di Mageroya in Norvegia, dove c’era quella piccola panchina rossa vicino al mare, che ha scolpito il “logotipo” indelebile di quella avventura nella mia mente. Penso a quella pace, e quella discreta maestositá della natura: tutto ciò che quel luogo chiedeva era spegnere il motore, scendere dalla moto e sedersi sulla esile panchina rossa, sgangherata e rovinata dalle temperature polari, poi star lì ore intere a pensare, non importava a cosa. Anzi, non importava più nulla: c’era la pace, un silenzio avvolgente che faceva più compagnia del rumore, il mare che dirigeva l’orchestra, e il vento che accarezzava i pensieri: per quanto la mia sintesi possa essere efficace o inefficace, è impossibile spiegare l’inspiegabile; so solo che la notte mi ricorda ancora oggi tutto questo, attraverso i sogni ricorrenti che la mia memoria propone, perchè non vuole dimenticare.

Era tutto lì, era quello che serviva per imparare una lezione preziosa: ero andato in capo al mondo per scoprire che la pace interiore ha bisogno di stare tranquilla, e non deve essere disturbata dalle “interferenze”. Avevo scoperto l’ovvio, ma proprio perchè ovvio, c’era bisogno di scoprirlo.

E ricordo chi, al mio rientro, mi etichettò come un folle, un incosciente e non ricordo che altro: quei giudizi superficiali, dettati dalla quotidianitá, suscitarono la mia più totale indifferenza; dopotutto non c’era cattiveria o invidia in quelle affermazioni, ma semplice ignoranza genuina e banale. La pace interiore a quel punto fu chiusa a chiave nello scrigno dei segreti, e non provai nemmeno a spiegare il significato di quelle esperienze; ormai sapevo dove trovarla e come trovarla: questo aveva ripagato tutti i miei intenti, e aveva dato il senso che cercavo in quella avventura. Ero comunque felice per i miei interlocutori perchè avevano raggiunto la pace interiore grazie a mezzi sicuramente più sbrigativi: è bastato un nuovissimo iPhone.

Quella pace durò fino al modello successivo.

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About Alex

..faccio il tifo per il lupo cattivo: con la nonna ho già perso troppe scommesse.
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