L’attenzione dei media è concentrata sulla (disastrosa) situazione lavorativa in Italia; purtroppo oggi il “lavoro stabile” è diventato un obiettivo quasi irraggiungibile per le nuove generazioni, e il precariato diventa l’unica opportunità proponibile a chi non può permettersi il lusso di entrare nell’imprenditoria.
Giovani specializzati e non, laureati e non, preparati e non, non fa alcuna distinzione; sono tutti gettati in un calderone che non lascia intravedere sbocchi professionali, sicurezza, trasparenza.
Non diciamo niente di nuovo.
Tutti i riflettori sono puntati (giustamente) su questi gravi problemi sociali, e tutta l’attenzione è concentrata su queste priorità, ma in questo momento mi soffermo su un altro aspetto.
Stavolta si osserva la situazione dei fortunati, quelli davvero fortunati (e credetemi, nessuno sputa nel piatto dove mangia) che sono riusciti ad entrare in un circuito lavorativo che garantisce sicurezza economica e stabilità lavorativa, i fortunati che non devono preoccuparsi più del compenso economico ma piuttosto della carriera, i fortunati che non devono cercare il lavoro, ma piuttosto devono cercare di crescere, di ottenere una soddisfazione morale, una gratifica, un passo verso la soddisfazione personale, che non c’entra nulla con lo stipendio e l’aspetto economico.
Sembrerà fuori luogo ed egoista un concetto del genere: c’è gente che stenta a trovare qualcosa che possa garantire una stabilità economica, mentre qui si parla di “carriera”, “crescita professionale”, “vita in ufficio”, mentre in tanti sognano ad occhi aperti qualcosa del genere.
Non diciamo niente di nuovo.
Eppure c’è qualcosa che è giusto diffondere; cercherò nel mio piccolo di trasmettere un altro spaventoso aspetto della vita lavorativa che tutti inseguono; mi piacerebbe far capire che non è tutto oro quel che luccica, mi piacerebbe far capire che (hai detto niente) lo stipendio è l’unico vero fine per il quale, in certi contesti, vale la pena impegnarsi, perchè qui, chi è fuori spera di entrare, e chi è dentro si rende conto che oltre allo stipendio non c’è più nulla per cui vale la pena combattere.
E mi sento in colpa, credetemi, per queste affermazioni: col precariato che c’è in giro dovrei solo ringraziare Dio per percepire regolarmente uno stipendio a fine mese, e lo faccio, credetemi: come ho precisato prima, non mi azzardo a sputare nel piatto dove mangio.
Ma oltre allo stipendio mi domando dov’è finita la dignità delle persone, mi chiedo a cosa serve il lavoro che faccio, mi chiedo come si possa lavorare in un ambiente dove la gente agisce e ragiona in base a concetti fittizi, attività inutili, regole assurde e soprattutto comportamenti deplorevoli.
Ecco, mi piacerebbe solo far capire che non è tutto oro ciò che luccica, e soprattutto, a distanza di ben 30 anni, Paolo Villaggio col suo “Fantozzi” ha centrato in pieno.
E credetemi, non c’era nulla di esasperato nelle sue storie: non diciamo niente di nuovo.
(dal blog “Pensieri, Parole, Opere, Omissioni”, Maggio 2008)