Era una notte di ordinaria follia, quella organizzata da quattro “superstiti” in città, la sera di Ferragosto; la modesta “follia” consisteva in una passeggiata presso un locale adiacente alla spiaggia; si ballava, c’era il ristorante e tutte le attrazioni per “catturare” il pubblico. Era un locale ben organizzato e ce n’era per tutti i gusti: una zona prevista per le persone che volevano ballare tra i decibel spaccatimpani, una zona con i tavoli per chiacchierare tra amici, una zona con il bar e il sottofondo lounge, e poi c’era una sorta di privè, con le poltrone sulla spiaggia destinate alle coppie che desideravano un pò di riservatezza.
Quella sera la parola d’ordine era “divertimento”. Molti vivevano il “divertimento” parlando tra loro, prendendosi in giro, raccontando barzellette, mentre altri vivevano il “divertimento” sulla pista da ballo; al di là delle conoscenze tra potenziali futuri partner, quel luogo era diventato il tempio dell’emulazione, dove ciascuno si trasformava in qualcosa che non si capisce da dove viene; non si capisce cosa sia, ma soprattutto non si capisce dove è in grado di arrivare; ragazze di tutte le taglie e tutte le età che, in gruppi di minimo due, ballavano tra loro mimando chissà quale attrice e chissà quale scena: si fissavano sempre negli occhi durante i movimenti, più o meno sinuosi, cercando una conferma reciproca; la sigaretta era costantemente stretta tra le labbra, quasi come una parte integrante della “coreografia”, mentre i ragazzi appoggiati al muro fissavano le natiche di queste con le mani in tasca, urtandosi tra di loro e indicando con lo sguardo la “modella improvvisata” di turno; era la lampante simulazione dello stereotipo, ormai inflazionato, del “bel tenebroso”, nonostante in certi casi capitava di vedere poche “tenebre” e ancor meno bellezza.
Quelle che sembravano amiche per la pelle, al punto da simulare una complicità necessaria per quello spettacolo, probabilmente non erano neanche grandi amiche, o lo erano diventate per l’occasione: giusto il tempo necessario per racimolare qualche ragazzo, e poi ciascuna proseguiva sulla propria strada. I ragazzi apppoggiati al muro ormai sembravano ipnotizzati da quelle rappresentazioni improvvisate; l’unica cosa in grado di catturare la loro attenzione era concentrata sulle tette, sui glutei, sugli addominali scoperti, su qualche tatuaggio e sugli altri dettagli che andavano dal petto verso il basso. Il “rituale” subìva una scossa quando il dee-jay lanciava un disco particolarmente gettonato o apprezzato; le ragazze saltavano d’improvviso, sgranavano gli occhi mostrando l’espressione tipica della sorpresa inaspettata, si abbracciavano e gridavano: sembrava la reazione che normalmente segue una bellissima notizia, invece si trattava solo del brano che piaceva di più, e dopo quei salti di gioia, continuavano a ballare come prima, continuavano a muoversi con i movimenti più o meno sinuosi “cantando” il ritornello con le sopracciglia e le espressioni che hanno visto in TV, sempre fissandosi negli occhi, sempre con la sigaretta tra le labbra, sempre tra abbracci e carezze al limite dell’approccio saffico.
Quando questo spettacolo ben studiato portava all’atteso risultato, capitava di assistere a un’altra scena insolita: il ragazzo “accalappiato” in piedi e la ragazza che gli balla accanto, accarezzandolo, strofinandosi vicino e ripetendo in continuazione una sorta di lap-dance interrotta di continuo, dove il palo questa volta è umano, e di sesso maschile. Non era difficile leggere la noia nel pensiero di quei ragazzi, che erano “osannati” per ore, in questo continuo “rituale” del “coito interrotto” intorno al palo; la solita scenografia accuratamente costruita e realizzata frettolosamente da chi, per l’ennesima volta, vuole diventare “importante” nella solita, quasi monotona, serata “speciale” che si ripete in modo più o meno puntuale ogni settimana.
Questo era il “divertimento”, incorniciato da una notte incantevole di Agosto illuminata dal riflesso della luna piena sulla riva del mare, una leggera brezza e un cielo luminosissimo dove spiccava la stella polare, circondata da un centinaio di altre stelle. L’orizzonte sembrava più infinito del solito mentre un uomo con lo sguardo distratto fissava il vuoto, seduto in riva al mare, su quel pezzo di spiaggia che custodiva i suoi ricordi più belli.
Quella spiaggia era un efficientissimo guardiano silenzioso: conservava in uno scrigno immaginario i momenti brevissimi e intensi di tante persone, teneva per sè centinaia di storie da raccontare, custodiva gelosamente quelle emozioni che neanche una vita intera vissuta intensamente sarebbe in grado di portare via; pochi attimi di vita che una volta invocati, come una magia, avevano il potere di spazzare in un momento tutto il male che una persona può portare dentro di sè; quell’uomo osservava il palo dell’ombrellone al suo fianco e ricordava una notte vissuta dieci anni prima, in un posto come quello, mentre passeggiava a piedi nudi sulla sabbia tenendo per mano la sua ragazza; era una storia iniziata da pochi giorni, l’entusiasmo era a mille e l’alba di un sentimento iniziava a mostrarsi; quella notte si erano seduti proprio lì, accovacciati davanti a quell’ombrellone: un riferimento anonimo, insignificante, ma ancora inconfondibile a distanza di tanto tempo. Quel flashback ricorrente, tra le onde del mare calmo continuava ad accompagnare il suo sguardo perso nel vuoto; ogni volta che la sua mente ritornava su quei ricordi, la bocca non riusciva a trattenere un sorriso smorzato; questo succedeva anche quando l’umore era ai minimi termini, proprio come quella sera.
Alle sue spalle, dietro alle sedie a sdraio, qualche altra coppietta di ragazzi, intenta a godere quel panorama spettacolare; abbracciati, mano nella mano o con il ragazzo che, di spalle, abbracciava la ragazza stringendola a sè; tutto questo avveniva con la discrezione e il silenzio che il contesto meritava: un rituale da osservare con profondo rispetto per impedire che il rumore potesse, in qualche modo, disturbare la magia di quegli istanti, mentre l’eco lontano della musica e degli schiamazzi trasmetteva la distanza tra quei due contesti, che sembravano due mondi paralleli a distanza di poche decine di metri.
Nel silenzio rotto soltanto dalle onde calme e il bisbiglìo delle coppiette si riusciva a distinguere qualche promessa di amore eterno o qualche frase romantica che aveva il sapore della sincerità col retrogusto dell’ipocrisia; ragazze illuse accanto a ragazzi indecisi, ragazzi increduli accanto a ragazze immature… ce n’era per tutti i gusti; l’unica costante era rappresentata dalla solita “nota stonata” che si manifesta tra le sfumature dell’incoerenza… ma qualcuno disse che “la coerenza è la virtù degli stolti”.
Tra i sìbili delle frasi pronunciate a bassa voce e quel ritmo scrosciante delle onde, finalmente l’uomo decise di non trattenere più quello sfogo che a tutti i costi voleva abbandonare la sua anima. Gli occhi lucidi non trattenevano più le lacrime, e il viso si bagnò lentamente fino alle labbra; un paragone tra “fallimento” e successo era evidente, e costante. Si guardava intorno, vedeva ovunque persone che conducevano una vita “migliore” della sua, e anche se spesso scopriva che quel “benessere” era solo ipocrita apparenza, sapeva bene che perfino l’ipocrita apparenza, per quanto ripudiata, sembrava lontana dalle sue possibilità. La depressione più acuta qualche volta lo spingeva a fare ragionamenti estremi, pensava sempre che “nessuno avrebbe pianto al suo funerale” tranne un paio di persone, o peggio, che nessuno avrebbe mosso un dito se finiva in ospedale. Tranne il solito paio di persone, e forse aveva ragione.
Una vita vissuta con priorità stravolte; avvolto dalle responsabilità e avvilito dalle delusioni, aveva abbandonato gradualmente l’idea di conquistare quella felicità inseguita da tutta la vita. Normalmente ripeteva, tra sè e sè una frase che sembrava un tormentone: “verrà un giorno”; quella sera, guardandosi intorno, sembrava rendersi conto che il suo obiettivo sembrava più irraggiungibile del solito. E anche stavolta, forse, aveva ragione.
Mentre la musica, le minigonne delle ragazze e gli addominali palestrati dei ragazzi spingevano gli sguardi di tutte le persone verso il basso, sulla spiaggia, in riva al mare, c’era un uomo solo che in silenzio osservava uno spettacolo diverso, che nessuno sembrava aver notato in quel casino: un cielo stellato, i lampioni della città lungo la costa che si riflettevano sull’acqua, le luci di una barca in lontananza e il bagliore della luna.
Ma per osservare quella composizione pittoresca era necessario alzare la testa e lo sguardo: bisognava puntare verso l’alto, iniziando a fissare l’orizzonte: forse, in fondo, era l’unica ragione per cui quell’uomo era lì da solo, in compagnia dei suoi pensieri e dei suoi ricordi. Nessuno faceva caso a quella sagoma sulla riva: le telecamere di un immaginario “grande fratello” erano puntate altrove; i “riflettori” erano interessati alla “vita mondana” che si svolgeva sulla spiaggia: del resto, ciò che conta davvero è il “divertimento”.
(dal blog “La carne e i maccheroni”, Agosto 2009)